mercoledì 30 gennaio 2013

ricordo di Shimamoto, "l'acrobata dello sguardo"



E’ morto a 85 anni Shozo Shimamoto, celebrato ultimo pioniere vivente del Gruppo Gutai, il drappello di artisti giapponesi riconosciuto come la prima neoavanguardia internazionale del secondo Novecento, anticipatrice della action painting, degli happenings, della body art, di Fluxus. Era molto noto in campo internazionale, presente nei più grandi musei. In Italia era molto amato per una serie di mostre ed azioni dominate dal lancio di bottiglie piene ciascuna di colore diverso contro tele per terra o a parete, in modo da ottenere effetti da pittura “informale” energica e vibrante con schizzi e macchie di colori intensi e brillanti. Un gesto per il quale fu definito dai media “il  Pollock d’Oriente”. Azioni  di grande impatto spettacolare: anche per l’avanzare dell’età il bottle crash avveniva dall’alto, dalla cabina di un carrello elevatore, al cospetto di gran pubblico, come a Reggio Emilia nel 2011 per una mostra in Palazzo Magnani (dove è sorta una Fondazione a suo nome). Ma altre grandi mostre gli sono state dedicate sin dal 1999 nella Galleria d’Arte Moderna di Roma, e in anni recenti a Napoli e Capri per la Fondazione di Beppe Morra e nel Palazzo Ducale di Genova, per la costante cura di Achille Bonito Oliva. Il celebre critico, che lo ha definito “l’acrobata dello sguardo”, lo portò anche in Puglia, nel 2009 per l’edizione di Intramoenia Extrart nel castello di Barletta: vi era installata una statua di Budda – anteposta al busto medievale del presunto di Federico – intrisa dei suoi schizzi di colore, con i relativi barattoli lasciati per terra tutt’attorno.
Tra pittura di azione (espressa anche in opere con tagli e buchi, pur senza rapporti evidenti con Lucio Fontana)  e installazione degli oggetti ad essa legati, Shimamoto riprendeva e rinnovava una idea di arte come esperienza globale che mette in causa il corpo. Proprio la relazione dialettica, anche conflittuale,  fra spirito e corpo, è il significato di “Gutai”, il termine da cui prese nome il movimento che prese vita - per iniziativa del pittore Yiro Yoshihara -  in un paesino del Giappone lontano da Tokyo negli anni in cui il paese era occupato dalle truppe americane dopo la sconfitta segnata dall’olocausto nucleare di Hiroshima e Nagasaki. Così un sentimento nuovo di violenza fisica si sposava originalmente alla unità di spirito-corpo predicata da Taoismo. Nella prima esibizione del gruppo, 1956, Shimamoto sparò del colore da un cannoncino. Poi passò al lancio di bottiglie che rompendosi schizzavano colore sulle tele, in apparente casualità. Ma come nel dripping che Jackson Pollock eseguiva sulla remota ed opposta sponda atalantica di New York, la nevrosi del gesto era governata dalla sapienza creativa dell’artista. Nel caso di Shimamoto si  nutriva dalla cultura felice del sontuoso, “decorativo” cromatismo orientale. Una complessità di esperienza di questo mite omino che ha portato spirito japaniste nel corpo delle inquietudini ibridi e nomadi del nuovo tempo occidentale.


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