martedì 30 ottobre 2012

Giuseppe Giacovazzo



La scomparsa di Giuseppe Giacovazzo apre troppe ferite nel corpo dei miei ricordi. Grazie a lui, amico di anni universitari, conobbi la sorella Michela che sarebbe divenuta mia moglie. Con lui, quando fu prima redattore capo della Gazzetta del Mezzogiorno e - dopo il suo ritorno dalla RAI - direttore, ho condiviso gli anni di lavoro giornalistico più intensi della mia vita. Domani lo saluteremo per l'ultima volta nella chiesa madre di Locorotondo, alle 16. Ciao Peppino, nel tuo paese vivrai.

lunedì 29 ottobre 2012

La "prima volta" di Alberta Zallone, da scienziata a fotografa



L'esordio pubblico di Alberta Zallone come fotografa a Bari mi spinge a violare una regola che mi ero dato: quella di non pubblicare su fb le mie recensioni su mostre nelle gallerie private di Bari e provincia (ovvero la "città metropolitana") che appaiono di solito ogni giovedì nella edizione "barese" della Gazzetta. Un criterio selettivo dettato dal timore di inflazionare la produzione di "note",  con conseguente sospetto di eccessivo localismo-esibizionismo.  Per la "prima volta" di Alberta, che è anche una "amica fb" farei un'eccezione, anche perché della sua mostra sui "cieli americani" è appparsa oggi , "fuorisacco", la recensione sulla Gazzetta. Un'altra versione sta per essere pubblicata sul magazine online di Flavia Pankiewicz "BridgePUgliaUsa". Magari può essere l'occasione per sentire il parere degli amici sulla opportunità di mettere in rete "tutto e di più". Intanto, ecco qui sotto il testo su Alberta pubblicato oggi sulla Gazzetta.
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Ha atteso una vita, si può dire, Alberta Zallone prima di esordire in pubblico come fotografa, lei scienziata con studi di rilievo internazionale sull’osteoporosi, docente universitaria di Istologia. Perciò assume interesse insolito la sua prima personale, che apre la stagione di mostre di “La Corte” nella ex cappella del Castello Svevo di Bari. L’associazione presieduta da Marilena Bonomo ha fra i suoi soci uno dei più autorevoli fotografi pugliesi, Carlo Garzia, che è il compagno di Alberta. Si possono capire quindi le sue perplessità in un paese piccolo come il nostro dove per molto meno la gente mormora. Ma infine hanno vinto le sollecitazioni di chi conosceva la qualità di una passione coltivata in autonomia da sempre, sin dall’ambito degli studi scientifici, e affinata in continuo confronto culturale. Rotto il ghiaccio, ecco come prima prova una selezione di fotografie scattate nell’ultimo decennio negli States, dove l’autrice ha vissuto anni di studio e dove torna assiduamente. “Cieli americani” s’intitola la mostra. Dove per “cieli” s’intendono le diverse dimensioni di spazi e condizioni di vita che da sempre esercitano fascinazione sull’uomo europeo.  Da “America” di Jean Baudrillard, Alberta Zallone ha tratto l’epigrafe del suo catalogo “Lo spazio in America è una vera e propria forma di pensiero.”
Una forma duale, nella classica dialettica fra Città e Deserto, fra East e West, fra pieni e vuoti della vita. Un gruppo di foto indugia con sguardo lento e cromatismo caldo sulla New York di sottoponti e soprelevate, i controluce della gente fra tagli di ombre lunghe e sbuffi di vapore, danze e ginnastiche sul belvedere di Manhattan e a Central Park. Sulla parete di fronte, gli spazi bruciati dal sole dei deserti californiani, piani ondulati di monti contro l’infinito, luci di tramonto sugli spiazzi dei motel e delle stazioni di servizio. Fanno da simmetrico contrappunto ai due blocchi di immagini una serie di zumate sui segni della vita urbana marginale -  graffiti, insegne al neon, homeless – e una personale immersione nelle ombre verdi e umide di fitti boschi senza identità geografica, da Washington alle Hawaii. Ma senza perdere la bussola, con trepida incisione di rapporti interni.
Due immagini isolate presidiano questa rete di relazioni tessuta con “tassonomica perizia” (Manlio Capaldi in catalogo). Una schiera di villette del North Carolina con tetti spioventi di candido disegno contro fondi di nuvole blu (inevitabile il richiamo ad Hopper); e un imperioso tratto di arco nero che taglia il cielo da un tappeto di nuvole azzurre, astrazione minimal dell’avveniristico  Gateway Arch di Saint Louis, sul Missouri. Anche un diagramma Nord – Sud, nella mappa dei misteri estatici dell’America tracciata da Alberta Zallone. Sino al 23 novembre, negli orari del Castello.

martedì 23 ottobre 2012

For president: foto arte e bottoni nelle elezioni USA



Finale di partita col fiato sospeso fra Obama e Romney per la conquista della Casa Bianca. L’esito incerto accresce la suspense per le presidenziali USA: da sempre evento mediatico di interesse mondiale, grande teatro politico capace di coinvolgere anche l’immaginazione visiva. Lo prova una rassegna fra storia ed attualità in corso a Torino, nella Fondazione Sandretto Re Rebaudengo . Fotografie a forte valenza iconica (specie per l’epopea dei Kennedy) scattate negli anni da una ventina di reporter della celebre agenzia Magnum, fra cui grandi nomi come Cornell Capa, Elliott Irwin, Eve Arnold. L’apparato pop delle pubblicità elettorali: spot, manifesti, gadget, spille, bottoni. Di bottoni ce ne sono in mostra ben 350, sin dalla campagna di Roosevelt 1952, estratti dalla vasta collezione di un italiano d’America, Luca Dal Monte. Una raccolta di spot di propaganda politica dal 1952 al 2008 è proposta in unico video di 75’ da Antoni Muntadas, noto artista spagnolo che vive a New York. Così la comunicazione di propaganda trapassa il costruzione di immaginario, con opere di diversi artisti contemporanei. E’ un bell’intrigo che mette pepe sull’iniziativa ideata da Mario Calabresi, direttore del quotidiano torinese “La Stampa” che è stato per anni inviato a New York. L’ha realizzata con il critico d’arte Francesco Bonami, direttore artistico della Fondazione Sandretto, che ha vissuto pure lui diversi anni a New York.
Il senso complessivo del progetto si coglie nel salone centrale con l’allestimento concepito dall’artista newyorchese Jonathan Horowitz per la prima elezione di Obama, 2008. Due tappeti uno blu l’altro rosso – i colori di democratici e repubblicani- ricoprono il pavimento, a parete si dispongono i ritratti di tutti i presidenti nella storia degli USA. Al soffitto da una nuvola di palloni bianchi rossi e blu contenuti in una rete, si calano in sospensione due televisori piatti opposti fra loro. Nel 2008 trasmisero il giorno delle elezioni dai due quartieri generali; il 6 novembre prossimo trasmetteranno in diretta – per una estemporanea sala stampa con ospiti - la nuova emozionante “notte bianca” che proclamerà il 45.mo presidente degli States, mentre i palloni saranno liberati dalla rete. 
La mostra però proseguirà, sino al 6 gennaio 2013. A riguardare con occhi non da tifosi le opere degli artisti chiamati in causa è possibile capire come sia cambiata anche la cultura delle conventions, in alcune svolte storiche significative. Negli anni Settanta, in clima da guerra del Vietnam e di contestazione nelle università, gli artisti sono al contempo attivisti: con le prime handycam in bianco e nero, il gruppo TVTV di San Francisco (Top Value Television) si cala fra gli elettori di Nixon e McGovern. La musica cambia con gli Ottanta di Reagan: l’irruzione dell’ex attore di Hollywood trasforma le campagne presidenziali da impegno per le idee a confezione di un prodotto da piazzare: il “Perfect Leader” di un video del californiano Max Almy girato nel 1983. Evoluzione che l’italiano Francesco Vezzoli commenta con ironia straniante nel video “Democrazy” presentato alla Biennale di Venezia 2007: sugli schermi, i candidati che si confrontano per la presidenza degli USA sono Sharon Stone e Bernard- Henry Levi. Lei attrice sexy di Hollywood, lui sofisticato filosofo francese. Ma parlano e si muovono secondo i dettami dei rispettivi strateghi della comunicazione: importanti non sono più i contenuti ma “la fotogenia, la sicurezza, la retorica”.
Vale anche per la elezione del 2012? La discesa in campo di Obama segnò un’altra svolta nelle strategie della comunicazione: irruppe il popolo di internet, la grande Rete spontanea e interpersonale. Ma non sembra che sia più così. A quella sfida del 2008 risalgono due ritratti di Obama e di McCain, dipinti a china acquerellata come antichi eroi orientali dal cinese Yan Pei Ming. Ma le fotografie di Ramak Fazel, artista iraniano che vive a Milano, mostrano gente addormentata nella Smithsonian Freer Gallery di Washington. Era il 20 gennaio del 2009: avevano cercato lì rifugio dal freddo e dalla stanchezza bivaccando in attesa del discorso di insediamento del primo presidente afroamericano della storia. Presentati ora a Torino, quei dipinti e quelle fotografie assumono sensi diversi di inquietudine e di dubbio. Gli eroi sono stanchi? Il sogno sta per svanire?

lunedì 22 ottobre 2012

Anticipazioni sul Premio Pascali 2012


E’ stato assegnato a Nathalie Djurberg  il premio Pino Pascali 2012. La notizia non è ancora ufficiale, ma la giovane artista svedese (vive a Berlino) dovrebbe essere a Polignano a Mare il 7 dicembre per ricevere il riconoscimento attribuitole dalla Fondazione Pino Pascali  ed inaugurare una sua ampia personale nei nuovi spazi del Museo. Nathalie Djurberg (nata nel 1978) è assurta a notorietà  internazionale nel giro di pochi anni per una fantasia grottesca, festosamente crudele, che attacca vizi privati e pubblici dell’umanità e della società contemporanea. Si esprime originalmente con la messinscena di pupazzi di plastilina in videoanimazioni o in spettacolari installazioni che includono elementi di natura vegetale – fiori, boschi, funghi - anch’essi “eccessivi”. A quanto pare, un paio di simili installazioni saranno realizzate per la mostra nel museo Pascali oltre alla proiezione di alcuni dei video che l’hanno resa rapidamente famosa. Sulla “Gazzetta” la irruzione della Djurberg  sulla scena europea è stata  segnalata in diverse nostre recensioni: la Biennale di Berlino 2006 (curata da Massimiliano Gioni e Maurizio Cattelan), la Biennale di Venezia 2009 nella quale le fu conferito il Leone d’Argento come miglior artista giovane, la mostra 2010 di videoarte nel Teatro Margherita di Bari dal museo di Malmoe “L’uomo senza qualità”, curata per il Comune dalla Fondazione Morra Greco. In Italia la Djurberg è stata lanciata nel 2008 con una mostra organizzata dalla Fondazione Prada a Milano, a cura di Germano Celant.  Appunto in collaborazione con la Fondazione Prada (che ha acquisito una ottantina di opere dell’artista) viene organizzata la mostra-premio a Polignano a Mare. Attualmente l’artista partecipa alla mostra “Francis Bacon e la condizione esistenziale nell’arte contemporanea” in corso a Firenze in Palazzo Strozzi, a cura del Centro Culturale “La Strozzina”.

mercoledì 17 ottobre 2012

Foto come armi contro la mafia: la storia di Letizia Battaglia



Sono passati vent’anni esatti dal quel terribile 1992, l’anno del sacrificio di Giovanni Falcone e di Cesare Borsellino. Letizia Battaglia accorse sui luoghi delle stragi, a Capaci e in via D’Amelio. Ma non volle fotografare i giudici amici, ultime vittime eccellenti della guerra di mafia che aveva insanguinato Palermo e la Sicilia tutta dai primi anni Settanta. Guerra lunga e oscura di cui questa bella ragazza siciliana dalla frangetta bionda era stata, più che testimone, combattente. Con la sua arma a tracolla, la macchinetta fotografica con la quale accorreva giorno dopo giorno per il quotidiano palermitano di sinistra  “L’Ora” sui luoghi della mattanza scatenata dai corleonesi che fece un migliaio di morti, giudici, poliziotti, carabinieri amministratori, politici insieme con i militanti delle cosche e ignari innocenti.
Ma non fu solo cronaca nera. Letizia, che a Palermo era ridiscesa nel 1974 dopo una fuga liberatoria nella Milano di cultura post Sessantotto, coniugò ben presto la pratica del reportage giornalistico (compiuta con compagni di vita e di fotografia, prima Santi Caleca e poi - per quasi vent’anni - Franco Zecchin) con l’indagine sociale e antropologica: la vita nei quartieri poveri e negli interni degradati di Palermo con attenzione particolare alle madri alle ragazze e ai bambini, le feste religiose, le feste gattopardesche dei nobili. Si mosse - con maggiore consapevolezza dagli Ottanta - nel solco della cultura del realismo che in Sicilia aveva una grande tradizione (da Verga a Sciascia, da Visconti a Scianna). Ma nutrendosi di stimolanti relazioni internazionali come quella con Joseph Koudelka, il fotografo ceko celebre in quegli anni per le foto dell’invasione russa di Praga e per la ricerca sugli zingari.
Così la professione si fece passione. E’ questo il primo contesto di lettura per le 60 grandi fotografie, rigorosamente in bianco e nero, dai forti inchiostri quasi caravaggeschi, impastate di rabbia e di pietà, che sono esposte per la grande personale a Bari nella sala Murat. Ne emergono brandelli sanguinanti di storia italiana, con i suoi nuovi martiri – i famosi come Piersanti Mattarella, gli sconosciuti come la prostituta Nerina. Tralucono irrisolte condizioni e contraddizioni della società meridionale, vedi il tatuaggio del Cristo di spine sulla spalla di un mafioso ucciso. Si stagliano icone della condizione umana, il dolore delle donne, lo smarrimento dei ragazzi. Fa da emblema finale il volto tagliato fra luce ed ombra di Rosaria Schifani, la giovane vedova di una guardia del corpo di Falcone, che in chiesa invitò piangendo gli assassini a pentirsi. Selezionate da un archivio di oltre 600mila scatti,  presentate in mostre libri e premi in mezzo mondo, queste immagini costituiscono in sostanza il Codice al quale Letizia Battaglia affida  dal 1999 il suo messaggio di “Passione Giustizia Libertà” .
Quasi un mantra, che l’autrice continua a declamare con inesausta energia ora che ha 77 anni, mentre dice di volersi dedicare alle sue piante di prezzemolo, alle tre figlie (una, Shoba, fa la fotografa) e alle nipoti. Passione di giustizia e di libertà che la portarono tra il 1986 e il 1993 all’impegno politico: consigliere comunale con i Verdi, assessore comunale con la prima “anomala” giunta di Leoluca Orlando, consigliere regionale per la Rete. E soprattutto, smaltendo le delusioni della politica (ma ora ha ritrovato a Palermo il “suo” sindaco Orlando), con l’impegno sociale nella cultura. Fondando circoli antimafia, pubblicazioni progressiste e femministe, una casa editrice. Battendosi per l’ambiente, per i malati di mente, per i carcerati. Realizzando cortometraggi. Il più recente, 2007, s’intitola “La fine della storia”. E’ ispirato ad una poesia di Pasolini: “Ma io con il cuore cosciente/ di chi soltanto nella storia ha vita/ potrò mai più con pura passione operare/ se so che la nostra storia è finita?”. Ma è davvero così? Letizia Battaglia ha ancora cose da fare e da dirci. Sulla mafia e non solo, di ieri e di oggi. Ne sapremo di più dall’incontro con lei, tornando “sulle ferite dei suoi sogni” (Michele Perriera, 2006).

PIETRO MARINO

* S’inaugura domani giovedì 18 ottobre a Bari nella Sala Murat (piazza del Ferrarese) la mostra di fotografie “Racconti di Mafia” di Letizia Battaglia, con un incontro (ore 17) con l’autrice moderato da Pietro Marino. 
La mostra – che si svolge nell’ambito del Festival “I Luoghi della Legalità” – resterà aperta sino al 30 ottobre. 
Orari: 10-13, 18.30- 21, lunedì chiuso. 
Ingresso libero.

martedì 16 ottobre 2012

Francesco Vezzoli. Democrazy, 2007


Una singolare mostra d’arte contemporanea dedicata alle campagne elettorali per le presidenziali USA è in corso presso la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. 
E punta l’obiettivo sui mass media come strumenti di manipolazione sociale

di Pietro Marino

RIVISTA ON-LINE DI CULTURA E TURISMO
- EDIZIONE OTTOBRE 2012 -

Mentre il duello per la Casa Bianca fra Obama e Romney entra nella ultima e decisiva fase, una eccezionale mostra in corso a Torino punta l’attenzione sulle campagne elettorali per le presidenziali USA come evento mediatico di interesse mondiale. Un grande teatro politico anche visivo, è quello messo in scena dalla rassegna in corso nella Fondazione Sandretto Re Rebaudengo (sino al 6 gennaio 2013). Fotografie scattate da reporter – famosi e non – della celebre agenzia Magnum. Opere di artisti contemporanei che con diversi mezzi (video, foto, pittura, installazioni) evocano il fenomeno con libertà di immaginazione e di commento. Una parata di oggetti prodotti per la propaganda elettorale (spot, manifesti, gadget, spille, bottoni, bandiere). Ma non è solo una rassegna “storica”: anche la competizione in corso entra “in diretta” nell’evento.
Il senso complessivo del progetto si coglie nel salone centrale con l’allestimento concepito dall’artista newyorchese Jonathan Horowitz per la prima elezione di Obama, 2008. Due tappeti uno blu l’altro rosso – i colori di democratici e repubblicani – ricoprono il pavimento, a parete si dispongono i ritratti di tutti i presidenti nella storia degli USA. Al soffitto da una nuvola di palloni bianchi rossi e blu contenuti in una rete, pendono per aria due televisori piatti opposti fra loro. Nel 2008 trasmisero il giorno delle elezioni dai due quartieri generali; il 6 novembre 2012 trasmetteranno in diretta – per una estemporanea sala stampa con ospiti – la nuova emozionante “notte bianca” che proclamerà il 45° presidente degli States, mentre i palloni saranno liberati dalla rete.
L’idea della mostra forse senza precedenti è di Mario Calabresi, direttore del quotidiano torinese La Stampa, che è stato per anni inviato a New York. L’ha realizzata con il critico d’arte Francesco Bonami, direttore artistico della Fondazione Sandretto, che ha vissuto pure lui diversi anni a New York, con l’apporto della Magnum, l’agenzia fotografica nata non a caso in America sessant’anni fa. Sono una ventina gli autori delle immagini esposte, fra cui grandi nomi della fotografia di reportage come Cornell Capa, Elliott Erwitt, René Burri, Martin Frank, gli italiani Paolo Pellegrin e Alessandra Sanguinetti, e l’attuale direttore della Magnum Alex Majoli. Di Eve Arnold è la fotografia scattata nel 1964, di una pittoresca sostenitrice del candidato repubblicano Goldwater, assunta ad efficace icona della mostra. È addobbata – per dir così – di gadget di propaganda, a conferma del rilievo strategico che l’apparato del consenso visivo è andato assumendo dai tempi del Pop. Lo testimoniano i 350 bottoni e i 20 poster esposti da un collezionista italiano che vive in America, Luca Dal Monte, che di gadget ne ha raccolti ben 1500: dalla campagna di Roosevelt 1932 (ma i primi bottoni apparvero nel 1896) ad oggi.
Una raccolta di spot di propaganda politica dal 1952 al 2008 è invece proposta in unico video di 75’ da Antoni Muntadas, noto artista spagnolo che vive a New York, da anni interessato ad esaminare con Marshall Reese i mass media come strumenti di manipolazione sociale. Interessante anche perché dimostra l’evoluzione della propaganda televisiva, da veicolo informativo a macchina di persuasione emotiva. Per creare il “Perfect Leader”, come ammoniva già nel 1983 un polemico video del californiano Max Almy, prodotto in occasione della campagna fra Reagan e Mondale. L’ascesa dell’ex attore di Hollywood alla Casa Bianca segnò indubbiamente una svolta in questa direzione, dall’impegno per le idee alla vendita di un prodotto.
Come sia cambiata anche la cultura delle conventions, lo dimostrano altre opere in mostra. Da una parte due video “storici”, girati in bianco e nero nel 1972 da un folto gruppo di video attivisti di San Francisco, il consorzio TVTV (Top Value Television) fra gli elettori per Nixon e Mc Govern. Dall’altra l’ironia straniante dell’italiano Francesco Vezzoli: nel videoDemocrazy presentato alla Biennale di Venezia 2007, i candidati che si confrontavano per la presidenza USA erano Sharon Stone e Bernard-Henry Lévi. Lei attrice sexy di Hollywood, lui sofisticato filosofo francese. Ma parlano e si muovono secondo i dettami dei rispettivi strateghi della comunicazione: importanti non sono i contenuti ma “la fotogenia, la sicurezza, la retorica”.
Varrà anche per la elezione del 2012? La discesa in campo di Obama segnò un’altra svolta nelle strategie della comunicazione: irruppe allora il popolo di internet, la grande Rete spontanea e interpersonale. Ma sarà sempre così? A quella sfida del 2008 risalgono due ritratti di Obama e di McCain, dipinti a china acquerellata come antichi eroi orientali dal cinese Yan Pei Ming. Ma anche le fotografie di Ramak Fazel, artista iraniano che vive a Milano. Mostrano gente addormentata nella Smithsonian Freer Gallery di Washington: era il 20 gennaio del 2009, avevano cercato lì rifugio dal freddo e dalla stanchezza nell’attesa del discorso di insediamento del primo presidente afroamericano della storia. Ripresentati ora a Torino, quei dipinti e quelle fotografie assumono sensi diversi di inquietudine e di dubbio. Gli eroi sono stanchi? Il sogno sta per svanire?

domenica 14 ottobre 2012

Virginia Woolf, Ezra Pound e tanti altri: una storia eccentrica nella Londra di primo Novecento

     Virginia Woolf e Lytton Strachey


Rara, eccentrica come i suoi protagonisti, è la mostra aperta con titolo svagato - “Un altro tempo” - nel Mart di Rovereto. Fra tante rassegne blockbuster osa proporre “un’isola di storia dell’arte mai considerata prima”. Avvertendo che le opere, relative ad una vicenda londinese di primo Novecento “fra decadentismo e modern style”,  “non saranno tra le realizzazioni più alte del secolo”: semmai “bizzarre, talvolta audaci”. Una presentazione così – dettata dall’affilato snobismo della ideatrice-curatrice, l’espertissima Lea Vergine – basta per sollecitare almeno curiosità. Subito premiata perché la mostra ha luogo in un surreale appartamento post-vittoriano con molte stanze immerse in un semibuio scandito da epifanìe di quadri e fotografie d’epoca. In credenze e vetrinette appaiono libri e sculture, cuscini e gioielli. Pedane con mobili, un pianoforte che non suona. Allestimento scenografico ideato dal noto stilista Antonio Marras, che sollecita una full immersionemozionale nella intricata ragnatela di storie e di personaggi narrata nel libro (più che catalogo) edito dal Saggiatore.
Potrebbe  dipanarsi dal cosiddetto “gruppo Bloomsbury” (1908-1938) che fuoruscendo dalla cultura vittoriana, si collega con i fermenti modernisti che si agitano fra New  York e Parigi. Vuole “perseguire la verità, infrangere le barriere e i tabù”, condividendo “idee sul mondo e varie camere da letto” omo e bisex. Nasce nei salotti aperti nel quartiere londinese dalle figlie di un docente di Cambridge, Leslie Stephen, che assumono il cognome dei mariti: Vanessa Bell decoratrice e pittrice, Virginia Woolf scrittrice destinata a fama internazionale e a morte tragica. Richiamano amici ed amanti artisti ed intellettuali. Nel 1910  organizzano un “ballo postimpressionista” nel quale si presentano come seminude “ragazze Gauguin”. Lo scandalo introduce nella mondanità il termine “postimpressionismo”, coniato in un fondamentale saggio su Cézanne da Roger Fry, divenuto autorevole storico dell’arte dopo le delusioni come pittore. Già nel 1903 aveva fondato il “Burlington Magazine”, storica rivista d’arte. Nel 1913 Fry costituisce la compagnia “Omega Workshop” col pittore Duncan Grant suo amante e con Vanessa Bell, a sua volta amante di Duncan dopo aver avuto una relazione con Fry. Il triangolo erotico si traduce in esperienza di laboratorio polivalente che raccoglie in versione modernista l’eredità di Arts and Crafts. Rilancia l’utopia dell’artigianato versus l’industria producendo mobili, arredi, tessuti, ceramiche, libri, dipinti murali: geometrismi, primitivismi e giapponismi s’incrociano con influenze fauves e cubiste.
Però la mente dei bloomsberries è John Maynard Keynes: proprio lui, il grande economista oggi invocato come teorico dello sviluppo contrapposto al rigorismo conservatore. In quegli anni Keynes sostiene che il comportamento umano deve guidare le “fragilità psicologiche” del capitalismo; e che il bene della società non sta nel massimizzare il profitto ma i valori che conducono alla felicità, l’amicizia e l’arte. Principi che traduce in “doppia vita” fra vizi privati e pubbliche virtù. Era stato anche lui amante di Duncan Grant (che gli dedica un ritratto). E fra un saggio e l’altro sposa nel 1925 una ballerina russa di Diaghilev, con sconcerto grande degli amici intellettuali.
Fra loro la sorella di Vanessa, la grande Virginia. Che fonda col marito Leonard una casa editrice, la Hogarth Press. S’impegna a sostenere lo “strano giovane” poeta Thomas Stearns Eliot, è tentata di far tradurre l’”Ulisse” di Joyce ma vi rinuncia (“mai in vita mia ho letto fesserie del genere”). E’ entusiasta invece di Ezra Pound, il geniale e folle poeta americano che così entra nell’affresco del tempo e della mostra (vedi a parte). Frequenta Lytton Strachey, “iconoclasta, arguto, biografo, pacifista e attivista omosessuale” il quale nel 1918 traccia impietosi profili degli “Eminent Victorians”, libro salutato come “manuale rivoluzionario” dalla comunità liberal. Che fra relazioni multiple e cene accoglie illustri ospiti europei, Picasso, Derain, Diaghilev, Stravinskj.
 A loro come a Gertrude Stein si aprono altri salotti non lontani: quelli di Edith Sitwell e dei suoi fratelli, i baronetti Osbert e Sachervell. “Scoprono” un valente musicista, William Walton. Con lui mettono  in scena un (poco fortunato) spettacolo di poesie in musica, “Facade”, 1922. Invitano Gino Severini (preferendolo a Picasso) ad affrescare il loro castello in Toscana, a Montefugoni. Sarà Edith ad esaltare l’eccentricità come “condizione tipica degli artisti e degli aristocratici”. Perché solo “il genio e l’aristocratico sono completamente non intimoriti e non influenzati dalle opinioni e dai mutamenti improvvisi delle masse” . Di questa signora “regale e stravagante”, come di tutti i Sitwell restano le immagini di decadente bellezza scattate in tempi diversi da Cecil Beaton, il teatrale fotografo dei divi di Hollywood. Ulteriori suggestioni di una  mostra che – ha ragione Lea Vergine – “non si fa solo per guardare e vedere ma anche per sapere”.
PIETRO MARINO
·         La mostra “Un altro tempo – Tra Decadentismo e MOdern Style” è aperta nel MART di Rovereto sino al 13 gennaio 2013. Orari: martedì-domenica 10-18 (venerdì 10-21). Ingresso 11 euro, ridotto 7. Info: tel. 800.397760, www. mart. trento
Sulla scena londinese evocata nel Mart di Rovereto dalla mostra “Un altro tempo” irrompe intorno al 1911 il genio ribelle di Ezra Pound (1885-1972). Il grande poeta americano già si aggirava tra Parigi e l’Italia. Ma è da Londra che lancia  nel 1912 “l’Imagismo” con l’amata poetessa connazionale Hilda Doolittle, e nel 1914 il movimento del Vorticismo insieme con il pittore inglese Wyndham Lewis, sulla rivista da quest’ultimo fondata e diretta, “Blast”. Il Vorticismo muoveva dalla suggestione del futurismo di Marinetti, ma esaltando piuttosto un vitalismo energetico e cosmico. Nella pratica della pittura di Wyndham Lewis e dei numerosi aderenti inglesi al movimento (Nevinson, Saunders, Woodsworth, Roberts, Coburn, la nuova compagna di Pound Dorothy Skakespear) si traduce in composizioni fra dinamismi geometrici e cubismo. Spiccano nel gruppo come in mostra le sculture “ieratiche” di Henri Gaudier-Breszka, “genio interrotto” dalla morte in guerra a soli 21 anni, nel 1915.
La storia successiva di Ezra Pound (la sua infatuazione “futurista” per Mussolini durante la seconda guerra mondiale gli costerà 14 anni in un ospedale psichiatrico degli USA come “criminale di guerra”) con i suoi ritorni e soggiorni in Italia (morì a Venezia) è evocata in mostra per toccanti tracce: le due sedie a sdraio rossa e blu che lui stesso realizzò a Rapallo nel 1958-59, le foto da santone malato che gli scattarono Ugo Mulas e Cartier-Bresson, l’adorante videointervista che gli dedicò per la RAI nel 1968 Pier Paolo Pasolini…Una ammirazione della cultura democratica  per l’autore dei “Cantos” a cui corrisponde il culto ancora vivo dei gruppi neofascisti. (p.mar.)

lunedì 8 ottobre 2012

FANTASIE FLUTTUANTI NEL TORRIONE DI MOLFETTA



Tornano nel Torrione Passari di Molfetta investigazioni intelligenti su esperienze avanzate della contemporaneità in arte. Ne sono protagoniste questa volta cinque presenze, quattro di area berlinese e una italiana. Le ha assemblate Giacomo Zaza che da qualche anno vive a Berlino, città oggi  cruciale per i movimenti in corso nell’arte europea. A Molfetta dove è nato, il giovane critico va portando avanti da un decennio insieme con la moglie Michela Casavola un coraggioso progetto di ricerca che tiene dritta la barra del rigore pur fra difficoltà sempre maggiori e distrazione - disaffezione crescente delle amministrazioni locali. Eppure le “fantasie fluttuanti” annunciate dalla mostra dovrebbero interessare la società tutta: come spirito del nostro tempo – ovvero, alla tedesca,  Zeitgeist. Designano infatti una condizione sempre più instabile e precaria di slittamenti fra la realtà e i linguaggi dell’arte.
Storia già lunga nel percorso di Olaf Metzel, il più anziano del gruppo (Berlino 1952, vive a Monaco). In mostra campeggiano due grovigli di lamiere accartocciate come dopo un violento scontro d’auto;  ma sono anche gigantografie di pagine di giornale appallottolate che rinviano a scarti tragici della storia, Gheddafi e Pasolini. E’ la variante più recente, in tonalità di espressionismo plastico, delle pericolanti installazioni di arte “politica” con le quali l’artista ha occupato spazi urbani sin dagli Ottanta,  traslando in forza iconica le tensioni della cronaca germanica, dal terrorismo alle immigrazioni. Ed anche la memoria “archeologica” dei tempi del Muro, affiggendo  un calco di stemma corroso della ex RDT, la Germania dell’Est comunista. Sulle archeologie del tempo storico lavorano oggi molti artisti (ne ho scritto più volte). Lo fa anche Marius Engh, norvegese a Berlino (Oslo 1974): espone in chiave concettuale una sequenza di foto di un ponte  sulla Garonna a Bordeaux che fu realizzato nel 1819 con 17 arcate, tante quante  le lettere del nome “Napoleon Bonaparte”. Prova poi smarrimenti lirici con un cilindro di ferro nero che riprende la forma del torrione molfettese, pieno sino all’orlo di acqua scura: nella speranza di catturarvi, dalla finestra accanto, la luce della luna.
Trapassano invece in performances dell’immaginario gli scambi visivi sui materiali del cinema e dei massmedia operati da Bjorn Melhus (berlinese con radici norvegesi, 1966) e dalla nostra Ra Di Martino (Roma 1975). Più che il video 2007 girato nel castello di Civitella Ranieri (Perugia) con taglio quasi didattico,  significativa è la rivisitazione ironica compiuta da Melhus su miti mediatici del cinema americano (un po’ sulla scia di Cindy Sherman). Nella videoproiezione “Happy Rebirth” (2004) l’artista, col viso tinto di blu e zuccotto bianco come un puffo dei popolari fumetti e cartoons di Peyo, canticchia con vocina infantile “Happy Birthday” : come fece Marilyn Monroe nel festeggiamento per il compleanno di John Kennedy,  1962 (evento cult su youtube). Per intense rivisitazioni/contaminazioni mediatiche si è affermata anche Ra Di Martino (tornata nella sua Roma dopo molti anni trascorsi fra Londra e New York). Intriganti  in mostra le sue fotografie di set per film del genere kolossal abbandonati dopo le riprese in zone desertiche di Marocco e Tunisia, a cominciare dalle costruzioni per Star Wars: con effetti di singolare straniamento, allucinazioni scenografiche che creano nuovi paesaggi da Fata Morgana.
Complessi giochi linguistici e trapassi di trame della memoria covano sotto l’ immediato richiamo esercitato dalla installazione site specific di uno dei più affermati artisti tedeschi d’oggi, Thomas Zipp (1966, vive a Berlino). Nella profonda sala-cisterna circolare si dispongono simmetricamente, oscillando a tocchi di soffocato tictac, tre bambolone con collari bianchi da collegiali, il corpo come volume conico su base emisferica, le testine che spuntano da un punching ball, le braccia stecchite. Su loro pende uno strano lampadario con inserti di neon, a parete un foglietto col disegno-rebus  di una mezza mela con lettere d’alfabeto. Surreale “Teatro Tecnico” con echi Bauhaus (il “Balletto Triadico” di Schlemmer) col quale l’artista accentua le sue incursioni nelle avventure delle avanguardie moderniste, dada, futurismo: dissacrate, sminuzzate, fatte riaffiorare fra altri reperti di storie perdute e anche fallite. Ma è evidente – in lui e nei suoi colleghi – un controcanto di nostalgia, in questo Duemila di progetti svaniti e di certezze smarrite. Le loro “fantasie fluttuanti”  sono accolte in dialogo dal Torrione mediterraneo con le sue pietre antiche, quasi un solido rifugio.

PIETRO MARINO

*La mostra “Fantasie fluttuanti” a cura di Giacomo Zaza è aperta a Molfetta nel Torrione Passari (via Sant’Orsola) sino al 4 novembre. Ingresso libero. Orari: tutti i giorni 11-13, 18-20. Info: cell.3474823583.

giovedì 4 ottobre 2012

ARTE E FASCISMO, GLI ANNI TRENTA IN PALAZZO STROZZI A FIRENZE



In un paesaggio di rupi senza tempo sta in piedi un uomo seminudo, possente. Impugna un vincastro come bastone di lavoro e di comando. Volge lo sguardo severo a protezione della sua donna e dell’infante. Il monumentale quadro La Famiglia che Mario Sironi espose nella Biennale di Venezia del 1932, ora si staglia nel Palazzo Strozzi di  Firenze in apertura della mostra “Anni Trenta - Arti in Italia oltre il Fascismo”. Fascista fervente fu sempre il grande pittore, con ostinata coerenza, sino alla morte; eppure la dimensione epica e tragica della sua pittura ha varcato tempi politici e contesti critici. Nella stessa antisala si leva una spettrale testa senza occhi, levigata nel marmo come cera di maschera funebre. E’ una scultura eseguita nel 1929 da Adolfo Wildt  (già autore di teste di Mussolini) per celebrare l’aviatore Arturo Ferrarin protagonista nel 1928 della trasvolata atlantica Italia-Brasile, una delle imprese di esaltazione nazionalista ordinate dal “quadrumviro” Italo Balbo. Ma anche per Wildt l’adesione al nuovo ordine non ha sminuito la sua importanza nella vicenda del simbolismo europeo.
Con questi esempi, i curatori della mostra (capofila Antonello Negri) sembrano voler rileggere un decennio cruciale per la storia moderna del Paese non ignorando il sistema totalitario che lo dominò, ma andando “oltre”. Puntando sulla cultura identitaria espressa dal centinaio di opere di pittura e scultura esposte  insieme a mobili, ceramiche, film. Tentando di scegliere campioni rappresentativi della varietà delle proposte in campo. Fissandosi sui singoli autori, ciascuno “democraticamente” rappresentato da un’opera o al massimo due. Con un approccio enciclopedico anche nell’allestimento (e molte iniziative di divulgazione).
Ne risulta un percorso di qualità sostenuta, con punte di eccellenza, ma anche accidentato dalla difficoltà di stringere in sintesi una storia ricca e complessa. Sono rappresentati rapidamente ma degnamente i nomi più famosi sin dagli anni Venti, quelli del “ritorno all’ordine” e del Novecento sarfattiano: De Chirico, Carrà, Savinio, Morandi, Casorati, Severini, Campigli, Martini, Marini, Manzù... Sono segnalati i centri più importanti, Milano, Roma, Torino, Firenze-Bologna, con un occhio a Trieste “città di confine”, ma ignorando Napoli (come dire tutto il Mezzogiorno – solita storia). Un riguardo particolare è  riservato all’ambito toscano nel quale ritrovo – tra i Soffici e i Rosai -  un pugliese doc, Onofrio Martinelli: con due quadri rappresentativi del suo realismo magico che vengono da Bari (la grande Composizione di nudi 1938 sotto la quale trascorsi molti anni negli uffici dell’E.P.T. e lo strepitoso Ulalume 1936, dal nipote Nicola Martinelli). Emerge poi la cura del regime per l’arte pubblica e celebrativa, con i cartoni di grandi murali realizzati da molti artisti, Sironi in primis. Intriganti anche i cenni sulle tendenze razionaliste-novecentiste in architettura e arti applicate, e sulla modernizzante comunicazione di massa (vedi box).
Ma il cuore problematico ed anche emozionale della mostra sta nelle sale che documentano la vivacità dei contrasti che percorsero l’arte, contrasti di generazioni e di tendenze. Dopo l’ultima rassegna generale sugli anni Trenta (Milano 1982) sono straripati saggi e mostre particolari. Sappiamo degli ordinamenti corporativi e istituzionali (Sindacali, Quadriennale, Biennale) conferiti dal regime al sistema dell’arte, come della sua tolleranza o indifferenza verso gruppi e tendenze. Gli stessi gerarchi si dividevano fra protettori, mediatori, oppositori, con crescente virulenza man mano che il fascismo precipitava dal culmine della popolarità (l’Impero coloniale, 1935-36) al disastro tragico della guerra. A Firenze possiamo ricostruire attraverso le singole presenze i vari schieramenti. Il fronte espressionista-realista con la Scuola romana (Scipione, Mafai, Pirandello), la Corrente milanese (Sassu, Birolli, Migneco), i Sei di Torino (Menzio, Paulucci, Levi) il gruppetto siciliano intorno a Guttuso. Gli esiti futuristi fra l’aeropittura e Prampolini (è venuto meno un quadro di Depero). L’arco ampio degli astrattisti,  geometrici (Radice, Reggiani) lirici (Licini, Munari) platonici (Melotti). Mentre Lucio Fontana transitava genialmente dal barocchismo cromatico al minimalismo spaziale. Una scena di vitalità  creativa che scatenò non solo la maggioranza tradizionalista (Ugo Ojetti sul “Corriere della Sera”, 1933: “Raramente si sono veduti tanti quadri e sculture lontani dalla bellezza, dal vigore e dalla salute”). La diatriba si fece anche politica, dopo le leggi razziali del 1938  e la mostra su “l’arte degenerata” allestita a Berlino dal nazismo nel 1937 (esempi a Firenze: Grosz, Dix). De Chirico, Carrà, Birolli, Fontana: tutti esponenti di un’arte “straniera bolscevizzante e giudaica” tuonò nel 1938 il gerarca Telesio Interlandi  sul “Tevere”. E il premio Cremona promosso dall’hitleriano federale Farinacci si scontrò con il premio Bergamo promosso dal ministro dell’Educazione Bottai. Qui nel 1941, a guerra in corso, la Crocifissione picassiana esposta dal giovane Renato Guttuso annunciò che l’arte e la società italiane andavano, davvero, “oltre il fascismo”. Recuperavano l’Europa.
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Per i più anziani è un attentato al cuore la “sala radio” allestita all’interno della mostra sugli Anni Trenta in Palazzo Strozzi a Firenze. In cuffia si possono ascoltare l’uccellino che annunciava le trasmissioni EIAR, le voci dei Quattro Moschettieri, Tito Schipa, Rabagliati, il Trio Lescano. E discorsi come quello del Duce che proclamava la guerra, 10 giugno 1940 (lo ascoltai accovacciato sotto una monumentale radio Marelli). E’ nota la cura posta dal regime per le comunicazioni di massa, come il cinema. Nella mostra scorrono (senza sonoro) sequenze dei mitici film “dei telefoni bianchi”, puntando l’attenzione sugli interni di arredo “moderno”: in sintonia con foto che documentano gli ambienti presentati nelle Triennali milanesi del 1933 e seguenti. Modernizzazione che si manifesta nello stilismo déco delle ceramiche, da Tullio d’Albisola a Gio Ponti. Ma c’è anche l’apparizione “serrata e prepotente” (Persico 1930) dei mobili in ferro: testimoniata da brevi sequenze di sedie con struttura tubolare (Pagano, Terragni…) e lampade (Baldessari, Albini…). Spie sul controverso rapporto fra sogno romanizzante del regime e “l’ordine nuovo” dell’architettura razionalista, evocato nelle appendici al catalogo Giunti e in altre iniziative collaterali. Un impatto immediato è offerto dalla stazione di Santa Maria Novella, combattuta fra nitore spaziale e  monumentalismo (Michelucci 1933-35). 

La mostra è aperta sino al 27 gennaio 2013, orari 9-20 (giovedì 9-23), ingresso 10 euro, ridotti 8,50-7,50. 

Info: tel.0552645155