sabato 27 aprile 2013

Lino Sivilli, classico e agreste nel castello


Il tempo ciclico della Natura e il tempo frammentato dell’Uomo s’incontrano nel bel castello medievale di Sannicandro di Bari. Sciamano di questo rito e mito di conciliazione è Lino Sivilli, l’artista pugliese che, varcata la soglia dei 70 anni, qui offre la sintesi di un  lungo percorso che si è sviluppato con meditativa coerenza. All’interno della corte e nei terrazzament isi dispongono alcune strutture di esile geometria in ferro rugginoso che oscillanoal vento con disegni di luci ed ombre. Una lente fissata ad una falce su un leggìo affida ai raggi solari di farsi “pennello della Natura” (come diceva Henri Fox Talbot agli albori della foto-grafia) bruciando su fogli da album le tracce delle loro evoluzioni nel giro delle ore. E un disco con frammenti dispecchi innalzato come una meridiana o stemma sull’ingresso brilla con mutevoli rifrazioni.
Nelle maestose sale interne il dialogo con i ritmi di natura continua con la serie delle Basi di lancio, formelle specchianti che si possono staccare e spostare alla ricerca del sole. Ma soprattutto è  messa a fuoco, con opere vecchie e nuove, la dialettica fra “Classico e Agreste” che dà senso e titolo all’ampia retrospettiva. Rapporto avviato nei Settanta recuperando in linguaggio di area concettual-antropologica un immaginario “mediterraneo” fondato sulla cultura dell’ulivo (“il Mediterraneo finisce dove finisce l’ulivo”, ha scritto Matvejevic).Ma Sivilli, figlio di un contadino di Bitetto, ha sempre schivato la retorica ingenuadel naturalismo. Ha assunto come arazzi della civiltà agraria i teli di cotone stesi sotto gli alberi per raccogliere le olive. Con gli aloni e macchie delle spremiture e con il nero del bitume vi ha impresso una austera segnaletica della storia: i graffiti con labirinti e spirali solari nelle grotte salentine di Porto Badisco, le svastiche da planimetrie cubiste nelle cavità lucane di Serrad’Alto, l’araldica di gigli e lance dello svevo Federico, le formelle del Romanico.
Dai Novanta la passione di ricerca sull’arché del presente (è divenuto “ispettore onorario” della Soprintendenza per la tutela dei beni artistici) si è estesa alla scultura. Ha scoperto l’opportunità di realizzare calchi in polietilene, materiale di finzione leggera. Fantasmi concreti di statue e di teste della classicità greco-latina convivono come “Dormienti”(tema che ricorre da De Chirico a Mimmo Paladino) con oggetti della società contadina, quasi ready made  di una residua pugliesità. Già dalla prima sala una testa dorata di Hermes sormonta una scalinata di sedie impagliate avvolte da carrubi. “Archeologia del contemporaneo”, esaltata nel salone principale da un possente carro agricolo degli anni Cinquanta con enormi ruote decorate sul quale si ergono come eroi in trionfo una Venere, un Apollo, un Torso maschile. E dalla parete cala il sipario del più recente degli arazzi di Sivilli: una “Raccolta delle olive” da un’anfora etrusca del 500 a. C. (conservata nel British Museum) con figure nere di aguzza eleganza, salutata con guizzi cromatici di coppole contadine.
Così l’immaginario circolare dell’artista sembra tornare con stilizzata trasfigurazione al punto di partenza: la saga della natura interrogata dall’uomo e trasformata dal suo lavoro. Lavoro paziente e sapiente come quello del “popolo di formiche” cantato nel dopoguerra pugliese da Tommaso Fiore. Metafora inevitabile mentre,oltrepassando araldiche processioni di formiconi dipinti in nero e rosso, lo sguardo è attirato dalla misteriosa accensione di un video dentro una raccolta nicchia del castello. La telecamera osserva con fissazione ipnotica il frenetico andirivieni delle formiche attorno alla loro tana. Da ragazzo passavo ore disteso per terra nel tentativo di captarne i codici. Così dice di aver tentato invano anche Sivilli. Ma proprio in questo sta la fascinazione discreta dell’arte: nell’ostinata meraviglia di provocare domande senza pretendere risposte.
PIETRO MARINO

* La mostra antologica di Lino Sivilli  ”Classico Agreste – Un binomio da cercare negli ulivi” è aperta nel castello di Sannicandro di Bari sino al 19 maggio. E’organizzata dall’Ass. Culturale G. Scalera col patrocinio di Regione Puglia, Comunedi Sannicandro, Delegazione FAI di Bari. Presentazione in catalogo di Nicola Zito. Orari: dal martedì al venerdì 17-20, sabato e domenica 10-12.30 e 17-20.
Ingresso libero. Info: tel. 3338608159

le nuove icone e i piccoli circhi di Lello Gelao



Torna ad esporre dopo quattroanni nella “sua” galleria Lello Gelao. Quasi interrompendo con la sua pittura adolio la lunga sequenza “fredda” di artisti, artiste per lo più, in prevalenzadi area nordeuropea convocati dalla moglie Angela con i mezzi privilegiati delvideo e della fotografia. Però il lungo bordocampo non ha fatto maleall’artista barese: gli ha consentito di raffinare ulteriormente il nuovo corsoesibito nella personale del 2009. Quando presentò  - al giro di boa dei cinquant’anni, scrissiallora – una serie di figure maschili solitarie, assorte in sguardi di maturamalinconia o attesa, definite con aguzza semplificazione nel contesto di unapittura à plat,senza volumi, quinditendenzialmente astrattiva: con debiti dichiarati all’area pre-post pop, daAlex Katz a Elisabeth Peyton. Quella scelta iconica si ripropone ora, consviluppi interessanti ai quali non deve essere estranea la frequentazione dellacultura nord-mitteleuropea: anche con rapporti diretti (risale a tre anni fauna sua personale a Dusseldorf) . La crescita si nota nella maggioreasciuttezza “gotica” assunta dalle figure, grazie a minimi interventi graficicompiuti con il colore stesso, che intagliano ombre di pieghe nelle camicie,ritagliano i profili, accentuano particolari anatomici. Così gli sguardi sonosempre sfuggenti, ma hanno assunto consapevolezza di sé, quasi una ostentazionedi alterità capace di dominare la fuga degli spazi cromatici in cui sono incisi.Concorre la dimensione maggiore e la tensione delle composizioni in lungo e l’intensitàassunta dai rapporti di colore, non più “di fermo pallore” come quattro anni fa.Esemplare la grande pala con ritratto dominato da un monumentale cappotto inblu.
All’”invisibile presente” delle nuoveicone fa da contrappunto la grazia di alcuni teatrini sospesi in griglie esili conelementi da circo realizzati in materiali poveri, fili stoffe carte e vetri,con statuine bianche di orsi e leoni ammaestrati. Ricorre qui la dimensione di sognatigiochi d’infanzia, riversati nella pittura degli esordi. Ma teatrini oggettuali(“Le Cirque du Soleil”) apparvero già nel 2007 presso l’Acif di Mimmo D’Oria, piùschematici – se non ricordo male – di questi ora realizzati con realismo inminiatura. Presso Muratcentoventidue, sino al 15 maggio. Dal martedì al sabato,17-20. 
Info: tel. 393 8704029, 392 5985840, www.muratcentoventidue.com

La ragazza con la valigia: Antonietta Raphael (e Mario Mafai) raccontati dalla figlia



“Mia madre era una strega…Misteriosa e affascinante, dura e inflessibile, affettuosa e al tempo stesso lontana e distante. Invincibile.….Non vi era in lei nulla di trattenuto:pregi e difetti, tutto era portato all’eccesso.” Sin dalle prime battute,assume il calore e il colore di un biopicl a narrazione della vita di Antonietta Raphael, la celebre artista di origine ebrea-lituana protagonista a Roma di un eccezionale sodalizio con ungrande pittore italiano, Mario Mafai. Ha un titolo chagallesco, “La ragazza conil violino” la biografia scritta dalla figlia Giulia Mafai, apprezzata costumista per il cinema e il teatro (ed. Skira, 208 pagg., 18 ill. b/n., euro 18,50).Ma non ha bisogno di forzare la scrittura a toni romanzeschi, l’ultima delle tre sorelle Mafai che ha ora 83 anni (la prima Miriam, notissima giornalista escrittrice è morta l’anno scorso, la seconda Simona vive a Palermo,tuttora  impegnata in militanza femminista). Già eccezionale è il personaggio della Raphael, estroso,anticonformista e insieme legato alle sue radici. E intense sono le vicende che segnano l’avventura sua e del marito in decenni drammatici per l’Europa e peril nostro Paese, dal tempo fascista agli anni della guerra, dell’ occupazione nazista di Roma sino al dopoguerra ribollente di passioni. Su questo sfondo di dramma collettivo, la vita di una famiglia segnata da lunghe fasi di miseria bohemienne con l’ombra incombente delle persecuzioni razziali. Anche da qui una cultura di opposizione al fascismo che indurrà le tre ragazze a impegnarsi nella resistenza prima e poi nella militanza politica con il PCI di Togliatti e di Berlinguer.
Dentro questa grande storia cresce la vicenda della Raphael che portando con sé un violino va dal villaggio nativo a Londra per realizzare una vocazione di musicista, la manca, scende aParigi e di lì a Roma. Qui incontra ad un corso di disegno l’uomo della sua vita, un giovane pittore figlio di N.N. al quale è stato imposto il cognome Mafai. Nasce un sodalizio con l’amico fraterno di Mafai, il pittore Scipione.Si propone con “la scuola di via Cavour” una pittura di nuovi sensi espressionisti. Ma mentre Mario comincia ad avere successo come “il pittore dei fiori secchi”(ma non ne è appagato) Antonietta decide in autonomia di darsi alla scultura. Si lancia nelle grandi dimensioni che daranno anche a lei tardiva ma giusta fama (una delle sue forti sculture, il gesso della Grande Gestante 1960 troneggia a Matera nel MUSMA, donato dalle figlie dopo la grande mostra della Raphael nei Sassi dieci anni fa). Il libro segue i corsi inquieti dei due, in un giro vorticoso di personaggi dell’arte della cultura e della politica che nelle pagine appaiono e scompaiono come in un affresco corale. In un rapporto sempre travagliato ma resistente, fra tradimenti di lui, lunghe separazioni anche in città diverse, sino alla morte di Mario nel 1965 e di Antonietta nel 1975. Una storia appassionante d’arte e d’amore che Giulia Mafai ci restituisce con trepida limpidezza di scrittura. 

 La Gazzetta del Mezzogiorno 14 aprile 2013 alle

A Venezia un labirinto di tappeti e di visioni: Palazzo Grassi trasformato da Rudolf Stingel







Chiamiamola vertigine visiva, oiperbole psichedelica, o come altro sia. Certo è esperienza di globale coinvolgimento ottico e tattile entrare a Venezia, sul Canal Grande, nel settecentesco Palazzo Grassi e trovarlo interamente rivestito - dal luminoso atrio a tutte le sale dei due piani superiori, dal pavimento alle pareti - di morbida tappezzeria in tonalità sul rosso arancio con motivi geometrici mediorientali tipo kilim. Sono riprodotti a stampa digitale, ingranditi e ripetuti in variazioni continue che accentuano effetti da smarrimento spazio-temporale. E’ come un intreccio di immaginari collettivi del Mediterraneo con vicende di perduta nobiltà privata: perché i tappeti appaiono come vissuti, affiorano parti stinte o logorate. Nel labirinto da sogno matissiano di luxe calme e volupté si stagliano sulle pareti, con giochi di contrasto, due serie di inquietanti dipinti ad olio e alluminio in monocromie grigio-argento. Al primo piano grandi pannelli trattati a larghe stesure e vibrazioni da astrazione atmosferica. Nel secondo, quadri di minori dimensioni che trascrivono con sapienza di pittura iperrealista fotografie da vecchie pubblicazioni in bianco e nero di sculture da chiese dell’Europa gotica (santi, madonne, mostri allegorici).
Autore di questa full immersion in un labirinto panottico di 5mila metri quadri è Rudolf Stingel, artista di notorietà internazionale,altoatesino di nascita (Merano 1956), di formazione mitteleuropea, dagli Ottanta incardinato a New York. La personale che gli dedica la fondazione del magnate francese Francois Pinault si propone come vertice virtuosistico di una serie di operazioni di rivestimento – modificazione di spazi compiute in sedi prestigiose, grandi musei americani e tedeschi, e in luoghi pubblici come la Grand Central Station di New York. Virtuosismo che a Venezia porta a livelli di maniera ”classica” un percorso eclettico con ascendenze neoconcettuali: dalla prima personale 1989 nella galleria milanese di Massimo De Carlo con istruzioni per una pittura “fai- da te”, ai vari ambienti con avvolgimenti plastici –anche nelle Biennali di Venezia 1993 e 2003 - nei quali il pubblico era invitato ad intervenire come gli pareva, a installazioni di tapisserie, appunto, con espliciti ammiccamenti ad un Kitsch barocco-pop.
Stingel si muove così nell’ambito delle esplorazioni condotte da diversi artisti sin dagli Ottanta sulla partita doppia di scambio fra realtà e finzione, fra esperienze della vita quotidiana e analisi dei sistemi del linguaggio. Pratiche “antiche” dell’arte si contaminano con l’uso di materiali poveri, colori industriali, immagini mediatiche. Ne è stato suo maestro il viennese Franz West (scomparso l’anno scorso): l’artista gli rende omaggio dedicandogli un intenso ritratto foto-pittorico che campeggia nel salone al piano nobile. Ma ora compone in sintesi meditativa anche l’incrocio spiazzante fra memorie di cultura diversa. Il fantasma occidentale della psiconalisi fra i tappeti orientali, come quelli che arredavano lo studioviennese di Freud. Fantasmi di devozioni e leggende popolari dalle antiche scultur edel suo territorio di formazione, rivisitate con un filo di ironia noir (esemplare lo scheletro che cavalca un leone). I dipinti assai recenti di gestualità “astratta” evocano atmosfere di cieli-acque in laguna. E fors’anche (come segnala Elena Geuna, attenta curatrice della mostra, nell’opulento catalogo Electa) la serie delle Venezie dipinte in argento alluminato da Lucio Fontana nel 1961 che qui furono esposte, quando Palazzo Grassi fu assunto da Gianni Agnelli a spazio prestigioso per l’arte come fiore all’occhiello della sua Fiat.
Mecenatismo d’impresa ripreso nel 2006 da monsieur Pinault e portato a livelli di grandeur collezionistica con l’aggiunta del museo di Punta della Dogana. Qui il 30 maggio – in concomitanza con la Biennale di Venezia -  sarà inaugurata la mostra “Prima Materia” che rinnoverà quasi completamente, con  80 opere, il repertorioespositivo  degli spazi ristrutturati da Tadao Ando. Il celebre architetto giapponese ha ora curato il Teatrino di Palazzo Grassi, l’ex giardino che divenne spazio coperto negli anni Cinquanta eda trent’anni in abbandono. Sarà riaperto, con auditorium avanzato, anch’esso per l’edizione 2013 di una Biennale molto attesa. Esordisce infatti come direttore il giovane curatore italiano Massimiliano Gioni, l’amico ed alter egodi Maurizio Cattelan, con un tema, il “Palazzo Enciclopedico”, che promette contaminazioni e sorprese à gogo. Ma con l’aperitivo Stingel la festa dell’arte internazionale è già cominciata.

*La personale di Rudolf Stingel è aperta in Palazzo Grassi a Veneziasino al 31 dicembre 2013. Orari 10-19, chiuso il martedì. Ingresso 15 euro (20euro con la mostra “Prima Materia” a Punta della Dogana, a partire dal 30maggio). Catalogo ed. Electa. Info: www. palazzo grassi.it 

Soste in viaggi tra qui e altrove


Un'idea di bellezza, anzi otto: nell'arte d'oggi, da Firenze

Vanessa Beecroft VB66, 2010

Jean-Luc Mylaine, Fevrier-Mars-Avril 2007

“Che cosa sia la Bellezza non so”scriveva Albrecht Durer in pieno Rinascimento europeo. E se non lo sapeva lui,figurarsi noi, che questo dubbio ce lo trasciniamo da secoli. Ma è ancor piùspiazzante vedercelo riproporre a Firenze, adagiata sulle sue certezze antiche,da una mostra che discute su “una idea di bellezza” indagata da otto artisticontemporanei. Si tiene in Palazzo Strozzi, dove si celebra la primavera delRinascimento di cui abbiamo scritto nella domenica di Pasqua. Bisogna peròscendere negli spazi underground, nelle ex cantine ristrutturate. Lì il Centrodi Cultura Contemporanea La Strozzina diretto da Frankiska Nori allestisce rassegneannuali che propongono tematiche impegnative su questioni poste dall’arte dioggi. Delicato e controverso è il rapporto con la bellezza, a cominciare dallasua identità mutevole. In tempi moderni l’arte ne ha preso le distanze e si èrifatta una vita sua. Ha provato a definirsi non come esperienza estetica macome avventura di conoscenza. Però “in un’epoca dominata da un’estetizzazioneesasperata”, segnala la curatrice, in molti artisti riaffiora una sorta didesiderio represso, di nostalgia. Ma non si tratta di riproporre vecchi ingannio di rifarsi il trucco. E’ il bisogno diffidente e oscillante di un rapportonuovo, di una bellezza “intesa come esperienza esistenziale più profondadell’uomo e del suo rapporto col mondo”. Su questa ricerca dubitosa s’inoltrala mostra, chiedendo aiuto anche ai visitatori: invitati a postare su computeruna definizione o idea di bellezza.
Diversi assai fra loro sono gliotto artisti. Tracce di bellezza secondo canoni classici (armonia, proporzione)si possono riconoscere solo in Vanessa Beecroft, l’italiana più acclamata edetestata proprio per l’estetizzazione delle sue messinscene. Ma nel video,nella scultura e nella foto in mostra, relativi alla performance VB66 nel mercato ittico di Napoli (2010),i corpi in abbandono delle ragazze negre e le nere statue mozzate rinviano aduna funerea Pompei della bellezza. Un’idea di riscatto dallo squallore di unacittà povera mediante la coloritura degli edifici presiede alla nota operazionedi beautification, abbellimentosociale, realizzata nel 2003 da Edi Rama sindaco-pittore di Tirana e volta a docuvideorelazionale da Anri Sala, celebrato albanese anche lui. Con qualche analogia,il fotografo tedesco Andreas Gefeller riprende in Giappone intrichi di cavielettrici e telefonici sospesi per le strade e con sapienti pratiche digitalili traduce in “quadri” di nervosa astrazione segnica con tocco di japanisme. “Vera pittura” , conapparenza di realismo disadorno, sono i quadri di paesaggio e d’interni delpolacco Wilhelm Sasnal. Ma nelle malinconiche stesure di neri notturni, diverdi e blu marciti, nelle figure smangiate come da fotografia in controluce labellezza è semmai un miraggio che svanisce.
Per una specie di legge delcontrappasso, ci provano con più convinzione alcuni eredi del concettualismo. Unabellezza fragile e misteriosa promana dagli uccelli fotografati su rami dialberi dal francese Jean-Luc Mylaine con “sedute” di posa che durano anche mesidurante i quali si stabilisce un rapporto di confidenza fra l’artista e i suoimodelli viventi: una sorta di estasi mentale dentro spazi di natura dilatati inluce-aria. Un misticismo geometrico e da camera presiede invece l’installazionedella polacca di Berlino Alicja Kwade:  lampade da tavolo posate per terra sono accesecontro paratìe di vetri con effetti di smarrimento –moltiplicazione deirapporti visivi. Sciorina più soluzioni la piacentina Chiara Camoni: unpaesaggio archeologico ricomposto con frammenti di marmo trovati, una nonna chea 90 anni ridisegna “per diletto” figure della storia dell’arte o riscrive apenna un saggio di Heidegger; e riprese video di micidiali ebollizioni edesalazioni di gas tossici in una valle irpina che più che al Bello rinviano al Sublime.S’impegna a suggerire bellezza come esorcizzazione rituale della violenza e catarsiteatrale della storia la serie di video e film Body of War 2010 girati dall’anglo-spagnola Isabel Rocamora. Sullespiagge di Normandia, fra i resti spettrali di bunker dopo lo storico sbarcoalleato del 1944, soldati in tutta mimetica combattono corpo a corpo secondo movenzeda addestramento, ma stilizzandole al ralenti quasi a modo di danza, su musicadi Arvo Part.
Theodor Adorno scrisse che dopoAuschwitz nessuna bellezza è possibile all’arte. Gli artisti messi insiemedalla Strozzina sembra che vogliano riprovarci, attraversando i campi minatidella postmodernità. E’ una partita che si gioca sui margini e fra gli intervalli,le vittorie sono dubbie o affidate alle sorprese. Lo sanno i curatori dellamostra. Accanto alla sala dove si cimentano i visitatori è collocato condiscrezione un monitor che trasmette tre minuti tratti dal film American Beauty di Sam Mendes, 1999. Inun contesto di crisi esistenziale di adulti, due adolescenti s’incontrano. Luimostra a lei un video dicendole che è “la cosa più bella” che ha girato. E’ unsacchetto di plastica che vola nell’angolo di una strada, e danza nel vento.

*La mostra “Un’idea di bellezza” è aperta a Firenze, nel Centro diCultura Contemporanea La Strozzina (Palazzo Strozzi) sino al 28 luglio. Orari:martedì-domenica 10-20, giovedì 10-20.30. Ingresso 5 euro, ridotto 4, cumulativocon la mostra “La primavera del Rinascimento” euro 12,50 – 10. Catalogo ed. Mandragoracon testi di Franziska Nori, Gianluca Garelli, Elaine Scarry. Info: tel. 0552645155, www.strozzina.org

lunedì 1 aprile 2013

La Primavera del Rinascimento: da Firenze, pensando un po' a noi

DONATELLO Madonna dei Pazzi - Bode Museum Berlino


Stenta a decollare la primavera, non solo quella del meteo. Anche per combattere la depressione, vado a cercarla a Firenze, invasa da frotte di turisti stranieri indifferenti alla crisi del nostro paese. E’ la “Primavera del Rinascimento”, offerta da una spettacolare mostra aperta in Palazzo Strozzi. Si concentra sulla prima metà del Quattrocento: quando la città dei lanieri e dei banchieri decollò a livello europeo per ricchezza e per prestigio. “Firenze sta al centro, guardiana e signora” proclamava nel 1403 l’umanista senese Leonardo Bruni. Nella sua Laudatio ne riconosceva il primato sulla Toscana tutta, consacrato visivamente nel 1436 con la cupola del Duomo “erta sopra e’ cieli” da Filippo Brunelleschi con procedura rivoluzionaria. In apertura di esposizione se ne innalza il modello di legno. Sotto si parano le due formelle in bronzo finaliste del concorso indetto nel 1401 dall’Arte di Calimala per decorare  i battenti del Battistero di San Giovanni. Ne erano autori, sul tema del Sacrificio di Isacco, lo stesso Brunelleschi e Lorenzo Ghiberti. Entrambi partivano, con sensibilità diversa, dal gotico di Nicola e Giovanni Pisano, di Arnolfo di Cambio, miscelandolo con motivi dedotti dall’arte classica. Vinse Ghiberti, già affermato a Firenze. E non fu male anche perché indusse lo sconfitto a dedicarsi all’architettura, innovandola come arte liberale del progetto.
Ecco:  da quell’evento muove la mostra curata per la Fondazione Strozzi da Beatrice Paolozzi direttrice del Museo del Bargello e da Marc Bormand per il Louvre (dove la rassegna si trasferirà in settembre). Legge con ricchezza eccezionale di apparati il nuovo sentimento umanistico di “rinascita” civile e artistica alla luce delle eredità assunte dal mondo antico con più organica consapevolezza. Offre confronti stimolanti assegnandosi come tema il ruolo dominante della scultura. Non senza ragione, perché sono storicamente rilevanti le committenze di “arte pubblica” fatte in gara dalle corporazioni per Santa Maria del Fiore, per il Campanile di Giotto, per Orsanmichele, per Santa Maria Novella: gli scultori volgono ad un realismo che fa delle statue di santi e personaggi biblici gli eroi identitari di una  nuova romanitas etica. E fra i severi Nanni di Banco e i Michelozzo giustamente risalta – con molte opere - la grandezza innovatrice di Donatello. Spicca la grande statua di San Ludovico da Tolosa (1425) trasferita da Santa Maria Novella e restaurata per l’occasione. Il virtuoso plasticismo di un panneggio senza corpo sotto è esaltato dallo splendore del bronzo dorato. Di colossale vivezza è anche la testa di cavallo in bronzo del 1455, eseguita per il re di Napoli Alfonso V d’Aragona dopo il clamore suscitato dal suo monumento equestre per il Gattamelata a Padova. Ma intriga di più l’estrema raffinatezza dei suoi “stiacciati”: i bassorilievi in marmo con i quali l’artista traduce in disegno plastico le decisive ricerche di prospettiva lineare compiute da Brunelleschi e teorizzate da Leon Battista Alberti nel trattato De pictura (1435-36): il San Giorgio e il drago del Bargello, la Madonna dei Pazzi da Berlino, il Banchetto di Erode da Lille. Mentre l’intensa Madonna col Bambino dal Louvre, una terracotta dipinta e dorata, illumina gli incroci e gli scambi fra scultura e pittura che connotano il Quattrocento.
E’ così comprensibile, ma duole egualmente, che le  “sculture dipinte” prevalgano in mostra  sulle vicende della pittura tout court. Sacrificando un protagonista assoluto del nuovo corso come Masaccio (morto a 27 anni nel 1428) che aveva tradotto modernamente la lezione di Giotto dialogando proprio con Donatello e Brunelleschi. E’ rappresentato da una sola tavola (il  San Paoloda Pisa) nella sezione che presenta figure pittoriche con volumetrie ispirate dalla statuaria. C’è Filippo Lippi, sono esemplari i quattro strappi di affreschi di Andrea del Castagno tratti dal ciclo di Uomini e Donne illustri, fra cui il Boccaccio e il condottiero Pippo Spano. Pittori di deliziosa eccellenza come Paolo Uccello e Masolino da Panicale fanno capolino nella sezione dedicata alla questione della prospettiva. Poteva starci il Beato Angelico, che sapeva chiudere in gabbie razionali le sue trasognate visioni.
La mostra preferisce inanellare altre suggestioni sul filo della scultura. L’invenzione della ceramica smaltata in bianco e oro di Luca Della Robbia che coniuga una diversa, allettante idea di bellezza con la pratica del multiplo a larga diffusione. Gli “spiritelli” che riportano i putti pagani a nuovi giochi fra sacro e profano. La moda dei busti privati. Sino agli apparati di alta decorazione sollecitati dai crescenti piaceri estetici di una borghesia proto-capitalista che dalla Signoria  repubblicana si accingeva al Ducato mediceo. Ma nel 1466 muore il vecchio oligarca Cosimo, primo mecenate delle arti, nello stesso anno si spegne ormai ottantenne anche Donatello. L’alba incerta del Rinascimento fiorentino sta per passare all’ora legale di Michelangelo e di Leonardo.

* La mostra “La Primavera del Rinascimento – La scultura e le arti a Firenze 1400-1460” è aperta a Firenze in Palazzo Strozzi sino al 18 agosto 2013. Orari: 9-20, giovedì 9-23. Ingresso: 12,50 euro, ridotto 8. Catalogo bilingue ed. Mandragora (550 pagg., 347 ill. a colori e 41 in b.n, 39 euro) con saggi dei curatori e di altri autorevoli studiosi, schede e apparati. Info: tel. 0552645155, www.palazzostrozzi.org. In Palazzo Strozzi è aperta anche la mostra “Un’idea di Bellezza” con otto artisti contemporanei, a cura del Centro di Cultura Contemporanea Strozzina. Sino al 28 luglio, martedì-domenica 10-20, giovedì 10-23. 
Ingresso 5 euro, cumulativo con “La Primavera del Rinascimento” 10 euro, riduzioni varie.
Info: www.strozzina.org  

Lasciano e raddoppiano Mara e Roberta: prima mostra al primo piano per ArtCore con Fabio e Gemis


Lasciano e raddoppiano Mara Nitti e Roberta Fiorito. La prima abbandonando col suo compagno Konstantinos la sede originaria di ArtCore in via De Rossi, la seconda chiudendo Fabrica Fluxus in via Celentano. E poi unendosi nella gestione rinnovata di ArtCore in altro spazio al centro: un appartamento in via De Giosa al primo piano riassestato in stile white cube, con stanze che consentono alla galleria non solo di esporre opere con buona visibilità ma anche di svolgere attività di relazione. Come, si vedrà: il coraggio delle ragazze merita un’apertura di credito. A cominciare dalla mostra inaugurale, piuttosto impegnativa aldilà della fredda eleganza di approccio. Ne sono protagonisti due giovani autori, il barese Fabio Santacroce e il teramano-bolognese Gemis Luciani. Uniti dal progetto di proporre opere su carta, muovono entrambi da un ambito neo-concettuale. Ma con percorsi ed esiti diversi.
Fabio si è fatto apprezzare negli ultimi anni con una serie di interventi installativi che mettono in scena repertori quasi da archivio, oggetti disparati sottratti alla dispersione o alla insignificanza con nitidi accostamenti che fanno lampeggiare problemi e disagi della vita sociale. Col nuovo progetto, applica il metodo per la prima volta (mi pare) al prelievo di immagini dalla pubblicità o dalla rete. Le estrae dalla funzione di consenso del consumatore e di messaggio di servizio (bancario, finanziario) al cliente. Le isola, le sovrappone. Ne deduce stampe digitali in post-produzione (per usare un termine caro al teorico francese Nicolas Bourriaud) ritagliate su vasti spazi bianchi. Intende così segnalare contraddizioni e ambiguità nel sistema della comunicazione. Ma nel diverso e distaccato ordine critico qualcosa dell’originaria aura delle icone si salva. Come la tigre che non riesce ad essere feroce nemmeno sottratta al contesto turistico.
In fondo è di post-produzione anche il lavoro di Gemis. Ripiega uno sull’altro i margini colorati di pagine di riviste patinate in modo che, esposti in verticale a parete, appaiono a distanza come quadri di astratto minimalismo, un po’ come dei Rothko tipografici. Ma poi si notano le pieghe che strutturano le fasce cromatiche, la lieve incurvatura dei fogli rivela la consistenza di oggetti promossi a funzione- finzione di bellezza. Estetica della marginalità (Marginal Compositions è il titolo della serie, 2010) ma anche del riciclo e della precarietà. Più esplicita in successive operazioni, da un happening del 2012 col bolognese Teatrino Clandestino di fogli che si staccano dalle pareti, ai recentissimi volumi di “pagine gialle” ritorti a guisa di sculture astratte. Con carte piegate gioca benissimo da tempo in Italia Stefano Arienti, ma mi sa che Luciani – frequentando da un po’ Berlino – respiri più aria di post-strutturalismo. Ha appena 30 anni, promette altre sorprese. 
Da tener d’occhio in via De Giosa 48, 1.piano, sino al 12 aprile. Info: tel. 080 9645299, cell. 3476574411, www.artcore.it.

Fellini nella mente di Annamaria



Fra gli omaggi che Bari dedica a Federico Fellini in occasione del Bifest, assume interesse particolare una mostra aperta con discrezione in un paio di sale dell’hotel Palace. La particolarità sta nel fatto che non è una rassegna con documenti, o fotografie, o illustrazioni. Si tratta di una dozzina di tavole dipinte da Annamaria Suppa, artista barese di cui è nota da anni la propensione per modi espressivi che tendono all’astrazione di derivazione informale: con gestualità larga di segni e gamma cromatica bassa che privilegia macchie e impennate di ocre e di grigi, fra addensamenti materici e improvvisi scolorimenti. Un repertorio interiore e con fondo malinconico che sembrerebbe stare agli antipodi della visionarietà del mondo felliniano, almeno nella vulgata che ha reso amabile a tutti il grande regista scomparso. Immagine confermata dalla mostra di disegni di Fellini aperta nella sala Murat, dove Federico “racconta” i suoi sogni (probabilmente li inventava anche) con disegno allegro da caricaturista e con minuziosa scrittura da diario privato.
Ma proprio qui si colloca la sfida disagevole della pittrice: nel provare a conciliare leggerezza e dramma, traducendo in linguaggio di libera immaginazione le ossessioni iconiche profuse nei film. E non in modo evasivamente generico, ma proprio evocando personaggi e scene (da 8 e ½, La Dolce Vita, La Strada, La Città delle donne, Le notti di Cabiria…). Così appaiono con tratti sommari, come maschere spiritate, la Saraghina e il Matto, Gelsomina e Zampanò, i Clown e le Donne, Marcello e Giulietta…Ma variando e mescolando acrilici e gessetti, matite e collages sui legni, Annamaria tende soprattutto ad animare movenze della memoria in dialogo turbato. Traccia segni filamentosi e trascinamenti di colore in cerca di luce. Esalta in indulgenti sarabande di tette e guizzi di gambe le visioni erotiche del regista. Ne commenta ironicamente i cattolici sensi di colpa con filari di pretini neri. Disperde negli spazi le acrobazie da circo e le magìe da sogno impennando figurine in fuga. Svolge infine con un sinuoso collage verticale di disegni acquerellati un gran finale da parata di Otto e mezzo, memore dei ritmi di Nino Rota. “Federico on my mind” è il titolo della mostra, visitabile sino al 24 marzo. Poi l’omaggio a Fellini si trasferirà a New York, nell’Istituto italiano di Cultura. 

l'arte di strada va in galleria (a Bari vecchia)

    Untitled, wall drawing di 108 nella galleria Doppelgaenger


Un robusto Cerchio nero, uno Zero monumentale si staglia su una grande parete di Palazzo Verrone in Bari vecchia, lasciando una scia di tasselli a più colori. Il wall drawing è del giovane piemontese Guido Bisagni, in arte “108”, il nick name adottato quando esordiva come street artist. Una street art piuttosto anomala: perché dipingere sui muri di città vaste macchie nere in sospensione che rimandano a geometrie primarie come il cerchio, il triangolo, il trapezio non è usuale nella tradizione del graffitismo. Nemmeno nelle versioni più astratte, che in genere nascono dal writing o da dinamismi di improvvisazione gestuale. Già il 108 è numero “pensato”: con implicazioni da matematica magica, esoterica, orientalista che rinviano all’infinito. Poi le forme rivisitano con stilizzazione postmoderna fonti colte – il suprematismo di Malevic, lo “Spirituale nell’arte” di Kandinsky, lo Zen col “cerchio dell’illuminazione” . Insomma la cultura storica del “Grande Astratto” ripresa anche in eleganza di pittura su tela e di inchiostro su carta, negli spazi chiusi di galleria: ma col resistente imprinting del “far grande” in spazio aperto, come segnala Vittorio Parisi in presentazione di mostra.
Il quale propone uno stimolante incrocio - a prima vista appare piuttosto uno scontro – fra 108 ed un suo coetaneo, Elzo Durt, in arte “solo” Elzo. L’artista belga si scatena in una figurazione visionaria che attinge al mondo punk- rock, skate, tattoo, con serigrafie che rinviano alla pratica moltiplicata e mediale dei poster, delle cover, delle fanzine. Scheletri e teschi che eruttano interiora fra l’organico e il meccanico, metamorfosi fra animali e robot, saccheggi delle iconografie del sacro come dell’esoterico, contaminazioni con reperti delle cronache mediali, gallerie di santini e tarocchi moderni sfigurati da mascheramenti e travestimenti. Il tutto incorniciato araldicamente all’interno di tapisseries e textures dal floreale al geometrico, con sapiente gusto fra vintage e kitsch. Operazione alimentata anch’essa da innesti e ibridazioni: dal Rinascimento nordico all’Ottocento simbolista ai fumetti di supereroi. E la stilizzazione grafica definisce allucinazioni esatte che non sembrano estranee al filo di arte fiamminga del fantastico che corre da Bosch ad Ensor a Jan Fabre. 
Il “Crossroad”  è presso Doppelgaenger  (via Verrone 8) sino al 20 aprile. Info: tel. 3928203006