sabato 28 settembre 2013

A Terlizzi i volti sospesi per strada da Cosmo Laera

Da sabato scorso, una strada stretta e lunga nel centro storico di Terlizzi è occupata da una popolazione volante di volti fotografici sospesi in alto su pannelli quadrati, su più file tese fra un muro e l’altro, quasi panni a stendere o stendardi poveri. Al centro della strada l’ingresso ad un vano ipogeo è sbarrato dalla proiezione di un video che rimanda a scatti come di diapositive, su una colonna sonora a ritmo incalzante, gli stessi volti inframezzati da particolari di interni ed oggetti domestici. L’effetto è piuttosto straniante, perché i visi sono quelli degli abitanti e frequentatori della stessa via e di un paio di stradine adiacenti. E’ come se i ritratti scendendo da lassù prendano corpo e vita – un po’ come accadeva con la vernice magica del sor Lambicchi, striscia famosa del Corriere dei Piccoli ai tempi della (mia) infanzia.

L‘operazione è stata realizzata da Cosmo Laera, il noto fotografo pugliese, per la seconda puntata di un progetto ideato e curato da Maria Vinella per l’Edicola RaRa di Paolo De Santoli, la porta-finestra dello spazio sotterraneo che l’artista-gallerista terlizzese usa per apparizioni sul fronte-strada, sulla scorta di iniziative analoghe come a Roma l’Edicola Notte di H.H.Lim. L’intelligente ciclo “Insight” di cinque mostre- eventi con altrettanti protagonisti fu aperto da una suggestiva performance di Tarshito nel giugno scorso. La nuova personale che s’intitola “Vicino a te, vicino a me” segna un passaggio molto interessante nel percorso maturo di Laera. Il fotografo di Alberobello si è affermato per una serie cospicua di esplorazioni del territorio pugliese e non solo. Ma ha assunto rilievo anche il ritratto, non come “genere” di rappresentazione fisiognomica o indagine socio-antropologica ma in quanto evocazione di “incontri per immagini”. Il prodotto più rilevante sinora è la serie di oltre cento ritratti di operatori nel sistema della fotografia – artisti, critici, curatori, estimatori, amici – incontrati anche nel corso delle meritorie rassegne di cultura fotografica d lui organizzate.
Ma lì gioca l’identità riconosciuta, la notorietà spesso internazionale dei personaggi ripresi in bianconero, in pose diverse, in campo medio e in contesti spaziali significativi del loro lavoro o delle occasioni di rapporto. A Terlizzi invece la ripresa è in primissimo piano e di profilo, senza spazio contestuale, in colore basso come pallore di pelle. Propone personaggi anonimi, in gran parte di età avanzata e di condizione umile, con sguardi sfuggenti, ambiguamente rivolti ad un vuoto. Così il ritratto fotografico si dà come “chiave di accesso ai sentimenti”, e la folta installazione che ne risulta assume valenza potenzialmente processuale e relazionale: il fotografo ha cercato i suoi personaggi, è entrato nelle loro case, ha messo in posa i loro pensieri smarriti. I “microcosmi di vicinanza, relazione, condivisione” (Vinella) sono incontrabili a Terlizzi in via De Cristoforis, sino al 14 ottobre.

sabato 14 settembre 2013

Un pioniere pugliese della Poesia Visiva: addio a Michele Perfetti

Addio a Michele Perfetti, pioniere pugliese del movimento italiano di Poesia Visiva sin dai primi anni Sessanta. Aveva 82 anni, era nato a Bitonto nel 1931, aveva vissuto a Taranto sino al 1973 dove fu protagonista dei fermenti di ricerca artistica che avevano al centro il Circolo culturale dell’Italsider (altri tempi). Poi se n’era andato ad insegnare a Ferrara dove ha operato sino ad ora (divenendo anche preside del locale Liceo Scientifico) e lì si è spento nel sonno – così mi annuncia da Taranto l’artista Vittorio Del Piano, suo sodale in quegli anni fervidi, il quale ha appreso solo ora del decesso che risale addirittura al giugno scorso. Un addio tardivo, dunque, ma necessario per risarcire l’oblìo sceso su un artista che ha avuto ruolo primario in una delle vicende più intriganti delle neoavanguardie nazionali fra i Sessanta e i Settanta. Perfetti fu tra i primi aderenti al  “Gruppo 70” fondato a Firenze nel 1963 da Miccini, Pignotti, Chiari e allargato a partecipazioni eccellenti come Isgrò, Bussotti, Ketty La Rocca, Simonetti, Sarenco, Spatola…. Fu come il battesimo della “poesia  visiva”, che contaminava in frantumata sintassi gli apparati iconici dei massmedia con scritture manuali o tipografiche. Ricerche e proposte di scrittura visuale erano già in corso con varie denominazioni (senza dire dei precedenti storici, dai calligrammi di Mallarmé e Apollinaire alle “tavole parolibere” futuriste). Ma il gruppo che faceva capo a Firenze si connotò per l’apertura alle tecnologie moltiplicate e per la carica polemica nei confronti della società dei consumi, in competizione-opposizione alla Pop Art anglosassone. “La poesia visiva colpisce alle spalle, è una quinta colonna nelle file nemiche dei massmedia”, proclamavano congiuntamente Perfetti e Miccini nel 1971. E in una intervista del 2009, per una delle tante mostre che nell’ultimo decennio hanno rivisitato quei movimenti, Michele ricordava con una punta di nostalgia: “ Noi avevamo l’utopia di cambiare il mondo attraverso la poesia…la poesia visiva costringe a guardare il mondo con occhi diversi”.
Carica utopica che lui espresse sin dagli anni tarantini, con una serie di iniziative. La personale 1967 “…000+1 – Poesie tecnologico-visive” nel Circolo Italsider. La collettiva nazionale “Comunicazioni visive” curata con Gianni Iacovelli a Massafra nel 1968. Una sezione internazionale nell’ambito della mostra “Co/incidenze” sempre a Massafra 1969. La personale e il libro “Plastic City” di nuovo al Circolo tarantino nel 1971. Nel 1972 a Bari la mostra di Poesia Visiva nella neonata galleria Centrosei  e un’altra personale. La nascita a Taranto del “Centro sperimentale Punto Zero” con Vittorio del Piano nel 1973 e gli “Innesti” con Vitantonio Russo. Solo per dire dei principali interventi nelle  nuove proposte che si agitavano fra Taranto Lecce e Bari (una ricostruzione di quel periodo pugliese è stata fatta da Antonio Lucio Giannone nel libro-catalogo della mostra “Di-segni poetici” che ha inaugurato nel 2011 a Matino nel Salento il MACMA, Museo di arte contemporanea dedicato proprio a collezioni di poesia visiva).
Da Ferrara, attivissima sino ai tempi ultimi è stata la presenza di Perfetti in tante oper/azioni  di poesia visiva in Italia e all’estero, Biennale di Venezia compresa. Con una personale cifra segnata da fantasia ironica, meno aggressiva e più trasognata col passare degli anni. Giocata sul fluttuare nel vuoto di frammenti sempre più semplificati e decantati. “Al di qua della parola al di là dell’immagine” fu la sua dichiarazione di poetica premessa come titolo-slogan a gran parte delle mostre e pubblicazioni dal 1981 (laureato in filosofia, produsse parecchi scritti teorici). Le nostre strade si sono incrociate raramente dopo i Settanta. Ne scrissi l’ultima volta l’anno scorso, in occasione di ArteLibro a Bologna, dove erano esposte le pionieristiche pubblicazioni con suoi contributi curate a Bologna fra il 1965 e il 1968 da un editore anche lui di origini tarantine, Riccardo Sampietro. Ed è una sensazione amara e struggente (questione di età) ripensare a tante avventure corse e interrotte per la cultura in Puglia, ed ai suoi protagonisti dimenticati anche per colpa nostra. Ma Michele Perfetti ci richiama all’esorcismo salvifico dell’ironia. Nel 1966 aveva fatto eruttare da un water parole ritagliate come amore, sogni, verità. Nel 2007 invitava ancora ad uno svagato ottimismo della volontà: “Oggi può essere un gran giorno: datti un’opportunità”. Ma contro un profilo di donna si stagliava un biglietto di lotteria.

Gli "ambienti sensibili" di Paolo Rosa, il pioniere di Studio Azzurro. Un ricordo dalla Pugli

Mi addolora la notizia della scomparsa improvvisa di Paolo Rosa, leader e teorico del gruppo Studio Azzurro pioniere in Italia della videoarte interattiva. E' morto per infarto, a soli 64 anni, mentre era in vacanza a Corfù. Avevamo un lungo rapporto che posso definire di amicizia, prima che di stima professionale. Ci eravamo visti in giugno alla Biennale di Venezia; nei primi giorni di agosto era stato a Polignano, per un workshop al Museo Pascali. Ne ho scritto in fretta un ricordo - molto concentrato sui suoi rapporti con la Puglia e col Mediterraneo- che esce domani sulla Gazzetta. Lo riverserò solo dopo, come sempre per correttezza nei confronti del mio giornale, su facebook. Intanto addio amico Paolo.


Il mondo dell’arte è in lutto, anche in Puglia, per la scomparsa improvvisa di Paolo Rosa, leader di Studio Azzurro, il  gruppo italiano che aveva fondato con pochi amici nel 1982, pioniere in Europa di videoarte interattiva. E’ morto per infarto l’altra sera a Corfù mentre era in vacanza, aveva 64 anni (era nato a Rimini nel 1949). Pochi giorni prima, il 5 e 6 agosto, aveva tenuto nel Museo Pascali di Polignano a Mare un workshop per un folto gruppo di giovani nel quale aveva raccontato la sua avventura e le sue idee sull’arte oggi. Quasi un testamento involontario, ultimo atto di un lungo rapporto di stima e di amicizia con l’ambiente pugliese. Era stato consacrato nel 2004 con l’attribuzione a Studio Azzurro del premio Pascali. Ne resta come testimonianza permanente l’installazione interattivaFrammenti di una battaglia (ispirata dalla Battaglia di San Romano di Paolo Uccello) acquisita dal Museo dopo aver vinto il primo premio alla  Quadriennale di Roma 1996. Il rapporto con la Puglia era iniziato nel lontano 1987, quando Studio Azzurro partecipò alla rassegna “Artronica” curata a Bari in Santa Scolastica da Anna D’Elia, ribadito nel 1990 a Bitonto per la mostra “La Pietra e i Luoghi” con Franco Sannicandro e ancora a Bari nel 1996 in “Virtual Light”, rassegna di videoarte e arte interattiva organizzata da Antonella Marino in Palazzo Fizzarotti.
Ci vedevamo spesso in giro per mostre – ne scrissi per esempio per la loro grande antologica del 1999 nel Palazzo delle Esposizioni a Roma. Nel giugno scorso ci eravamo rincontrati alla Biennale di Venezia dove Studio Azzurro era stato invitato ad allestire nel neonato padiglione del Vaticano un complesso “ambiente sensibile” che sviluppava, anche presentando in video storie di gente umile, il tema della Genesi. Riconoscimento prestigioso, che Paolo mi aveva sottolineato – mentre mi guidava nella visita- con un’ombra di pacata amarezza negli occhi cerulei: ”Dovevamo  attendere mons. Ravasi e la Chiesa – mi disse – per essere invitati alla Biennale di Venezia”. Normale disattenzione italica per un gruppo che era stato subito invitato a Documenta Kassel dopo la spettacolare videoinstallazione presentata nel 1984 proprio a Venezia, in Palazzo Fortuny: un Nuotatoreche attraversava a lunghe bracciate 24 monitor…
Da lì, una lunga serie di coinvolgenti esibizioni in Italia e all’estero con i compagni di avventura, Fabio Cirifino, Leonardo Sangiorgi, Stefano Roveda.Troppe per essere ristrette nel sintetico ricordo di un amico “lucido e amabile” come ha ben detto Angela Vettese. Apparizioni magiche per un pubblico chiamato ad interagire con tocchi di mani e scalpiccio di piedi, i loro “ambienti sensibili” sviluppavano spesso un leitmotiv di fondo: la rivisitazione della storia e della cultura del nostro Paese come DNA da rivitalizzare con la tecnologia più avanzata. Proposta confermata nella Sensitive City per l’Expo di Shanghai 2010 e per la mostra sulle Fare gli  italiani da lui diretta nell’ambito delle celebrazioni per l’Unità d’Italia. Paolo era anche l’ideologo, il teorico del gruppo. Questa intuizione aveva trasmesso nell’insegnamento a Brera – l’Accademia dalla quale era uscito come studente – e in una serie di interventi e di libri. Ultimo quello scritto con Andrea Balzola, L’arte fuori di sé. Un manifesto per l’età post-tecnologica (Feltrinelli 2011). Il progetto era di coniugare “i piaceri e le bellezze infinite del naturale e dell’antico con le contraddizioni invasive della modernità”.
Di questa idea – matura rivisitazione della cultura dell’età postmodern – era parte fondante il rapporto, culturale ed affettivo, di Paolo Rosa con il Mediterraneo. Si era rinsaldato dopo le Meditazioni mediterranee compiute nel 2002, con cinque videoinstallazioni in Castel Sant’Elmo a Napoli. Da esse sortirono i Nodi mediterranei proiettati due anni dopo a Polignano a Mare, per il premio Pascali, alla presenza di Nichi Vendola. Dopo il workshop di agosto Rosalba Branà, direttrice del Museo, gli aveva affidato la progettazione di una sala virtuale su Pino Pascali, il grande pugliese morto tragicamente a 33 anni. Al cospetto del Mediterraneo si è sciolto all’improvviso anche il nodo della sua vita. Strana e dolce congiunzione di interrotti destini.

Io, Marylin e la torre


Dalla mia strana villetta con tetti spioventi a tegole rosse scendo di solito a fare svogliatamente un bagnetto libero fra gli scogli di Torre Cintola, sulla strada per il Capitolo di Monopoli. C’è un breve tratto di scogliera alta, un cartello avverte di  pericolo di dissesto idrogeologico, nessuno ci fa caso. Qualcuno fa picnic all’ombra della torre semidiroccata, l’hanno rimessa su in parte e poi abbandonata. Quasi accanto c’è un bar che è cresciuto pian piano, prima c’era un baracchino per le cozze. Il baracchino si è spostato più in là e si è ingrandito, ha lunghe tettoie di legno quasi a ridosso di un villaggio turistico a palle bianche che ora è chiuso. E’ fallito dopo anni ruggenti, proprio quando gli avevano spianato di fronte un vasto parcheggio con una stradina ciclabile che non porta da nessuna parte. Il bar invece si è esteso scendendo sugli scogli con terrazzini e divani, ci hanno piantato persino una palmetta. Io ci  passo qualche volta col pretesto di farmi uno spritz, in realtà vado a trovare la mia amica Marylin.
Mi siedo ad un tavolino e lei mi sorride da una grande foto in bianconero affissa su una parete esterna del chiosco, dalla parte che guarda il mare e l’oriente. Non c’è niente di morboso nel suo protendersi verso di me dalla scollatura vasta e morbida, nessuna tentazione da dottor Antonio, come la felliniana Anitona gigantesca che invitava a bere più latte. No, con Marylin siamo cresciuti insieme. Pochi giorni fa, il 5 agosto, era l’anniversario della sua morte. Quella sera del 1962, quando giunse in redazione la notizia del tragico rinvenimento del suo mitico corpo spento su un letto disfatto, mi chiesero di scriverne in prima pagina. Alla Gazzetta ero entrato da pochi mesi, in prima pagina di solito nessuno poteva scrivere se non il direttore Oronzo Valentini. Non ricordo cosa scrissi, probabilmente qualcosa di patetico, piacque a parecchi. “Dovresti scrivere sempre di queste cose” mi disse Cettina, la moglie di Michele Campione, incontrandomi il giorno dopo come ogni estate, alla Baia di Palese.
Negli anni Novanta andai a Los Angeles con Flavia Pankiewicz. Lessi su una guida che dalle parti del mio albergo – era vicino al campus dell’UCLA, l’Università californiana – doveva stare il luogo dove Marylin Monroe era sepolta. Ci misi due ore per trovarlo, nessuno sapeva o forse non capivo. Era un giardinetto chiuso fra un garage multipiano, poche tombe di vip più o meno sul prato o alle pareti, anche Truman Capote credo. Marylin stava in un loculo dentro il muro di cinta, solo una lapide di pietra bianca col nome e le date 1926 -1962,  lì sotto una panchinetta con l’iscrizione “Amici di Marylin”, niente fiori, non più il fascio di rose che si favoleggiava mandasse ogni giorno Joe Di Maggio. Avrei voluto portargliele io, una sola rosa intendiamoci, ma non c’era ombra di fioraio per chilometri. Gliel’ho ricordato andandola a salutare nel pomeriggio torrido di questo 5 agosto e lei mi ha ammiccato, così va la vita.

Luigi Presicce, dal Salento magico alla contemporaneità



Re Salomone che visita i tagliatori delle pietre per costruire la Cupola della Roccia di Gerusalemme, e i tagliatori che rispondono battendo colpi di scalpello, a ricordare la confusione delle lingue nella Torre di Babele. Confusione moltiplicata da citazioni sceniche dalla Grosse Halle eretta nella Berlino nazista dall’architetto Albert Speer. Questo il nucleo della performance tenuta il 27 luglio nel Palazzo Danieli a Gagliano del Capo da Luigi Presicce, artista salentino in grande ascesa (è nato a Porto Cesareo nel 1976, vive – per quel poco che ci sta – a Milano). Alla performance “Le tre Cupole e la Torre delle Lingue” organizzata dall’associazione Capo d’Arte poteva assistere uno spettatore per volta, e per soli due minuti. Più o meno quel che avviene in tutte le sue opere realizzate dal 2007 ad oggi. Quasi a sollecitare un rapporto personale di meditazione  con la liturgia esoterica che l’artista mette in scena. Se ne fa sacerdote con vista occlusa da una maschera calata sulla fronte – di solito una piramide bianca. Una liturgia ridotta a poche  mosse, se non addirittura condotta a fissità assoluta e prolungata, da tableau vivant.
Così avveniva nella performance “La Benedizione dei Pavoni” tenuta a Porto Cesareo nel 2011 alla vista solo di due bambini. Lui stava per sei ore immobile in un gazebo con pavoni, in tunica bianca e grembiule rosso massonico, circonfuso da un’aureola di luminarie paesane. Tradotta in video ed esposta a Firenze nella mostra di sedici “Talenti Emergenti”, valse all’autore il premio internazionale  indetto dalla Fondazione Palazzo Strozzi. Consisteva nella edizione di una monografia a cura del Centro di cultura contemporanea Strozzina, organizzatore della rassegna. Pubblicata da poco, costituisce un prezioso e raffinato contributo alla conoscenza di una personalità complessa e anomala nel panorama dell’arte italiana di oggi: con saggi di Franziska Nori e Barbara Gordon e schede di opere dal 2009 al 2012 illustrate con apparati di tavole a colori. Ne emerge la figura  di un artista-sciamano (come Dalì, Ontani, Beuys) ispirato da “Mistici e Maghi” (raccolti in un suo libro d’artista del 2009). Ovvero “figure carismatiche o icone religiose e pop, personaggi e luoghi di derivazione massonica, esoterica o politica” (scrive Franziska Nori) che popolano un “gioco di rimandi tra arte e vita”.
Trapassando dalle scene fisiche a video e fotografie, si costituiscono degli apparati teatrali vissuti da personaggi della storia e della cronaca nell’ambito di scene dell’arte, medievale, rinascimentale, barocca –  Giotto in specie – e di repertori allegorici di sette e di religioni. Un mixage eseguito con esatti ritmi interni, con lucidità ieratica, che richiede o crea “intimità, solennità, intensità e risonanza” (Barbara Gordon). Una impenetrabile misura di allucinazione iconica che affonda radici antropologiche e culturali nel Salento magico, popolare e bizantino, per risalire al Carmelo Bene di Nostra Signora dei Turchi che lo emozionò da ragazzo. Presicce torna spesso nella sua terra per ambientarvi molte delle oper/azioni documentate nel libro, col team ormai consolidato di giovani collaboratori, anzi co-autori. Ma la svolta alla sua ricerca (iniziata dopo l’Accademia di Lecce come pittore di fantasia grottesca) risale –  lui stesso dichiara – ai workshop 2007-8 condotti da Joan Jonas (Fondazione Ratti a Como) e Kim Jones (Viafarini, Milano), artisti americani che hanno rinnovato la performing art in chiave concettuale - surreale. Così le radici dell’Origine sono rivitalizzate da Presicce attraversando percorsi della Cultura contemporanea. Al libro in edizione bilingue, l’artista pugliese ha premesso in epigrafe il lamento di un brigante meridionale, Michele Caruso: “Ah, Signurì, s’avesse saputo  legge e scrive avrìa distrutto lo genere umano”. Nella traduzione inglese a fronte, sembra Shakespeare: “Oh Sir, had I known how to read and write, I would have destroyed the human race”.
    Giulia Piscitelli

Vita nuova a Napoli per il MADRE, il Museo Donnaregina per l’arte contemporanea. La Fondazione di cui è unico socio e finanziatore la Regione Campania prova ad uscire definitivamente dalla lunga crisi che aveva portato il Museo sull’orlo della chiusura. Lo fa presentando il primo atto di un progetto complesso, affidato alla direzione del giovane Andrea Viliani con uno staff di collaboratori anche loro giovani,.Alessandro Rabottini ed Eugenio Viola. Si fonda su una offerta di mostre insieme con proposte di diversa fruizione degli spazi museali. Tre personali: l’artista tedesco Thomas Bayrle (Berlino 1937), l’artista messicano Mario Garcia Torres (Monclova 1975) l’artista napoletana Giulia Piscitelli (Napoli 1965). L’avvìo del riassetto della collezione permanente: aggiungendo opere nuove a quelle rimaste dopo il parziale svuotamento conseguente alla fine della contestata direzione Cicelyn. Opere donate da artisti (come la preziosa collezione di film e video di Gianfranco Baruchello) o prestate da fondazioni e gallerie napoletane, nello spirito di ricostruire storie e occasioni della contemporaneità internazionale passate per Napoli. Fra i nuovi prestiti, i copertoni della storica installazione “Yard” di Allan Kaprow (1961) accumulati nella corte, che grandi e piccoli possono movimentare a piacere (come avvenne nel fossato del castello di Bari per la mostra curata da Achille Bonito Oliva nel 2010). Infine, l’operazione “Re_pubblica MADRE”: il salone a pianoterra adibito ad agorà partecipativa. Il pubblico può lasciare commenti giudizi e proposte da una cabina fornita di computer o affiggendo foglietti su un grande pannello, e avvalersi di un’area wi.fi (non ancora attiva).
Alcuni appunti sulle tre personali. Quella di Thomas Bayrle ambisce al maggiore richiamo mediatico: fa conoscere in pratica per la prima volta in Italia questo anziano artista, noto per apparizioni in diverse rassegne internazionali. A Documenta Kassel 2012 spiccava il suo gigantesco disegno di un aereo: lavoro “storico”, del 1984, affidava la sua singolarità al fatto che l’immagine era formata dalla moltiplicazione modulare di aerei in formato micro. Come dire: soggetto pop, texture da design grafico, effetto visivo optical, intenzionalità da arte concettuale. Questo singolare impasto linguistico viene dispiegato a Napoli nelle interessanti variazioni praticate dall’artista dai Sessanta ad oggi. La sua visione critica della società di massa e metropolitana, maturata in clima francofortese – tra Marcuse e impegno politico marx-leninista – si riversa in virtuoso sperimentalismo di griglie formali, con ripetizioni alla Warhol e strutturalismi minimal, con textures iconiche e architetture installative. Passa dalla ossessione degli oggetti di consumo a “ritratti” pre-digitali, all’incubo macchinista di automobili e autostrade. Compie mirabolanti trasformazioni di segni eguali in sensi diversi, come un Arcimboldo modernista. Ma si fa prendere troppo dal gioco, l’ironia contestativa è spesso ingabbiata in teutonica sistematicità. “Un pop grigio”, suggerisce Jorge Heiser, autore di uno dei saggi nel catalogo monografico edito in Italia da Electa (la mostra è in collaborazione con Wiels - Contemporary Art Centre di Bruxelles).
Una grande mobilità di sguardo sulla realtà sociale del suo territorio ispira invece il pionierismo di Giulia Piscitelli, emersa sin dai Novanta. La traduce in libera produzione di apparati iconici a forte gradiente di fissità totemica, fra assunzione postduchampiana di oggetti isolati o in serie installative, e fotografie e video che distillano la quotidianità in allucinazione tranquilla. L’attenzione al territorio predicata dal nuovo corso del Madre trova con questa personale dedicata ad una artista di Napoli una coerente attendibilità, quasi a esorcizzare il sospetto di concessioni al localismo. Un sofisticato concettualismo poetico circola infine nelle stanze in cui Mario Garcia Torres riprende ed estende un progetto presentato a Kassel l’anno scorso: la sua ostinata ricerca sulle tracce del mitico One Hotel – una sola stanza con giardinetto – che il nostro Alighiero Boetti aprì a Kabul negli anni Settanta. Una viaggio nella memoria che si fa  anche interiore, con video e finte lettere che sfociano in assunzione d’identità, dialoghi immaginari, quasi ricalcando lo sdoppiamento compiuto in vita da “Alighiero & Boetti”, idealmente presente con diverse sue opere. Non è la più popolare fra le mostre del MADRE, certamente è la più intensa. Dice molto (a chi vuole ascoltare le voci dell’arte) su movimenti e smarrimenti del nostro tempo.
PIETRO MARINO

* Nel MADRE di Napoli (via Settembrini 79) sono aperte le mostre di Thomas Bayrle (sino al 14 ottobre) e di Mario Garcia Torres e Giulia Piscitelli sino al 30 settembre. 
Orari: 10—19.30, domenica 10-20, martedì chiuso. 
Ingresso 7 euro, ridotto 3,50, lunedì gratis. 
Info: tel. 081 19313016

Le cose che non accadono (secondo Raffaele Fiorella)

Non ha perso la voglia di sperimentare, di cercare nuove strade Raffaele Fiorella (Barletta 1979). Anche in una fase ormai abbastanza lunga nella quale hanno ottenuto consensi larghi le sue finestrelle e i suoi teatrini composti con doppio sguardo di figurine sagome in nero contro fondi video. Scene che hanno variato da sguardi misteriosi e maliziosi su interni di vita quotidiana a inquietudini ambientaliste, vaghi presagi di apocalisse, sino ad esplosioni nel fantastico. E con sempre più impegnative imprese di installazione complessa, come si è visto quest’anno con la personale all’interno di un capannone industriale a Barletta e col progetto finalista nel concorso indetto a Napoli per un’opera permanente in Castel Sant’Elmo (mostra ancora in corso).
Ora, nella nuova personale a Bari si è lanciato in diversa dimensione linguistica, con prove di computer grafica tradotte in una serie di immagini a stampa e in video. Dalla libera elaborazione digitale di forme-base circolari e ovali sono nati lucidi volumi di astronavi a palla o a sigaro che atterrano un po’ goffamente tra grafismi di alberelli stecchiti. Oppure improbabili radici spuntano dagli oblò e si allungano su terreni aridi, paesaggi desertici di analogo inerte candore. Proprio ghiacciai talvolta, banchise polari come quella su cui è incagliato una specie di dirigibile. Le navi spaziali sono segnate in abbondanza ritmica da finestrelle, portelli da cui cala una scaletta di corda, ma non c’è alcun indizio di presenze umane, terrestri o alieni che siano.
Scenari sintetici di “cose che non accadono” (titolo della mostra) rinviano a forme primarie di una fantascienza “da libri mai letti” – come dice l’autore al presentatore Lorenzo Madaro – con residui di umori ecologisti che avevano informato prove precedenti. Un immaginario sterilizzato da  passioni, che si consegna con fredda ironia formale ad una condizione di metafisico stupore. Qualche flusso d’inquietudine scorre invece nel video che evoca – sempre in finzione digitale – un’acqua alluvionale che trascina flemmaticamente sedie tavoli e oggetti. Non sembra effetto di naufragio, piuttosto una libera esondazione della fantasia dalla costrizione di schemi rassicuranti, una fuga dal rischio di stagnare nella maniera. Nella galleria Museo Nuova Era (via  dei Gesuiti 13) sino al 17 giugno. 
Orari: 17-20, domenica chiuso.  
Info: tel. 0805061158, 3480352614.

Commiato da Adele Plotkin, un'americana a Bari. La pittura come sogno "oltre il muro"


Colpisce dolorosamente gli ambienti della cultura la scomparsa a Bari  di Adele Plotkin, la valente pittrice americana  per nascita (Newark 1931) e formazione, incardinata a Bari da mezzo secolo dove si era affermata fra i più interessanti esponenti dei fermenti di arte nuova che percorrevano la Puglia negli anni Settanta. Vi era giunta come moglie di Carlo Ferdinando Russo, l’illustre grecista ora novantenne che è stato titolare per oltre un ventennio della cattedra universitaria di Letteratura Greca e che da Bari ha diretto la prestigiosa rivista letteraria “Belfagor” fondata dal celebre padre Luigi Russo. Lei scese in Italia per una borsa di studio Fullbright dopo la laurea conseguita nella Yale University dove era stata allieva di Joseph Albers, uno dei grandi protagonisti del Bauhaus emigrati negli USA. Dopo soggiorni a Venezia (in contatti con Vedova e Tancredi) e ad Ischia dove conobbe “Lallo”, tenne la prima personale nel 1970 a Roma, presentata da Cesare Vivaldi, autorevole critico della neoavanguardia.  L’anno seguente esordì a Bari nella galleria La Bussola di Elia Canestrari, con presentazione di Enrico Crispolti. Proponeva forme di sentore organico, dai toni sull’ocra che davano di terra e di vegetazioni, fluttuanti in concatenazioni e grumi nello spazio. Rimandavano ad Arshile Gorky,  il pittore di origine russa -ebrea  (come la sua famiglia)  che aveva avuto ruolo decisivo nell’avvìo di Pollock e dell’Espressionismo astratto a New York.  La lezione astrattista di Albers era più evidente nelle esperienze che riversò nel corso di Psicologia della forma e Teoria della percezione che le era stato affidato nello stesso 1971 dalla neonata Accademia di Belle Arti di Bari. Ci eravamo molto impegnati, il direttore Roberto De Robertis ed io come docente di Storia dell’Arte, per istituire quel  corso sperimentale come fiore all’occhiello di un progetto di moderna didattica,  e per assegnarlo – superando diffidenze e resistenze – ad un’artista “forestiera” portatrice di ricerche linguistiche nuove non soltanto per la cultura accademica. Incarico che la Plotkin resse con rigore ed amore sino al 1996, formando intere generazioni di allievi, anche con successivi master.

Nella sua pittura, liberi echi da  Albers potevano tornare a cogliersi  con la personale del 1977 nel  Centrosei di Nicola De Benedictis (storia ricostruita di recente dalla ricerca guidata in ambito universitario da Christine Farese Sperken): campiture geometriche di colori acrilici su cui galleggiavano efflorescenze vegetali, debordanti anche sui muri . Dagli Ottanta si era rivolta ad una forma-base, il cerchio, e ad un gamma di variazioni sul blu-verde  con collages di carte dipinte a tempera. Sino a forme irregolari, come nuvole o amebe, evocatrici di cieli vaganti o mappe di arcipelaghi senza nome, in sempre più sintetica liquidità di spazi. Evoluzioni seguite da  critici del calibro di Dorfles, Menna, Rosci, Meneguzzo, Masoero. Ma con apparizioni sempre più rade, scandite da una scelta di riservatezza di vita in comune col  suo compagno e da selezionate frequentazioni intellettuali . Oltre ad alcune partecipazioni a mostre collettive, le ultime personali sono state quelle del 1997 a Bari (galleria Museo Nuova Era) e del 1998 a Bolzano. L’ingiusto silenzio su una esperienza di raffinata sensibilità e di alto rigore linguistico è stato rotto dall’amico “storico” Raimondo Coga, con una sobria monografia di “Immagini ed Echi” edita senza clamori  dalla sua Dedalo nel 2009.
Voleva essere un ricordo – mi scrisse allora con ironia – della  “meglio gioventù” vissuta fra noi in solidarietà anche generazionale. Ma in un recente incontro nella sua casa-laboratorio mi aveva confidato la voglia di dire ancora cose. La chiave sentimentale della sua pittura sta in una annotazione in calce ad una poesia di Robert Frost, Mending Walls, da lei assunta nel 1980 come testo per una mostra a Savona:  ”Nel mio paese delle meraviglie gli alberi camminano, ma non v’è traccia di muro”. Adele si era chiusa fra pareti di silenzio privato, fuori dalla rissa mondana, forse per sognare un mondo senza muri. Ora il suo sogno si è avverato.

Quando le donne si amano e si odiano (un video di Giulia Caira)


Sulle pareti bianche della galleria si stende ad angolo una doppia videoproiezione. Due donne si azzuffano furiosamente all’interno di una cella circolare, come in una contesa di wrestling. Ma non c’è pubblico e sembrano odiarsi davvero. I due punti di ripresa esaltano le tensioni plastiche dei corpi e i sommovimenti degli spazi. Improvvisamente l’obiettivo si sposta su una sala da ballo di eleganza modernista con molte coppie che danzano, coinvolgendo le due donne che ora si avvinghiano con passione amorosa. Poi tornano a battersi, o forse la sequenza va letta all’inverso: la proiezione in loop  non fa distinguere un inizio da una fine. Non c’è una storia da narrare insomma, ma una tipica relazione tra donne da evocare: “l’amicizia e la complicità da una parte, l’invidia la rivalità e il conflitto dall’altra”, dice l’autrice del video, Giulia Caira. S’intitola “Evil Sisters” ed è presentato a Bari in prima nazionale. Una “riflessione autocritica sulla condizione femminile” che segna un punto significativo nel percorso dell’artista di origine calabrese (Cosenza 1970) ma incardinata da sempre a Torino. Da lì è emersa fra le protagoniste della generazione Novanta che hanno rinnovato in Italia i linguaggi di relazione fra arte e vita guardando a esempi forti, Cindy Sherman, Nan Goldin, Francesca Woodman…

Fu un esordio coraggioso il suo, con fotografie aggressive tra grottesco e noir nelle quali metteva in causa il proprio corpo in interni chiusi, tra rispecchiamenti deformanti, misteriosi avvolgimenti in teli di plastica. Col passaggio al video (“Se stasera sono qui”, 2004) ha affinato aperture concettuali di sguardo sulla vasta “zona di disagio” (per dirla con Franzen, scrittore a lei caro) che accomuna nei Duemila smarrimenti individuali e crisi della società. Instabili e problematiche  “relazioni intime” – titolo di video 2006 ispirato a Beckett – che si sporgono su un “confine incerto”(2005). Le più recenti mutazioni d’identità in “Virago” 2008 e le storie quotidiane rivelate con  “Le parole nascoste” 2009 si distendono in distacco visivo, scambi sottili fra realtà e finzione, anche con una punta di ironia. Nelle “Perfide Sorelle” riaffiora il gusto per il noir (dice di aver tratto spunto dalla cronaca di un delitto a Torino, una giovane uccisa dalla sua migliore amica) che si colora di attualità mentre sale l’onda di protesta contro il femminicidio. Ma qui la violenza si scatena fra donne – fenomeno indagato da diversi studi, come bene segnala Francesca Referza curatrice della mostra. Non è tanto questione di genere (la femminista “differenza”), sostiene Giulia Caira in una recente intervista: “il disagio di uno è un problema che riguarda tutti”. E nel “doppio movimento” quasi da cinema, nel corposo realismo del ribaltamento teatrale, rispecchia le alternanze del suo attuale stato d’animo: “ottimismo speranzoso e pessimismo terreno e cosmico”. 
A Bari, da Muratcentoventidue, sino al 30 giugno, da martedì a sabato 17-20. 
Info: 3938704029. 

L'arte liquida deborda dal Castello



Dichiara tutto il suo debito a Zygmunt Bauman il festival d’arte contemporanea “Liquid Borders” che dal Castello Svevo di Bari deborda (è il caso di dire) nella Sala Murat e in Santa Teresa dei Maschi. Prova a verificare con opere di fotografia, video e installazioni la visione della “società liquida” diffusa dal sociologo polacco con successo mediatico (spinto sino alla banalizzazione, ammonisce Carlo Garzia nel catalogo Adda). Ma da tempo non sospetto Luca Curci – il giovane ideatore e curatore della rassegna con Fausta Bollettieri – dichiara attenzione per i fenomeni di mobilità, ibridazione, sconfinamenti che connotano la condizione attuale. La riporta persino nelle modalità di reclutamento e assemblaggio dei 42 autori da 25 paesi che compongono la rassegna: per invito e per selezione online – quindi con diversi livelli di riconoscibilità come di qualità - e mescolando competenze ed esperienze. Per dire: da un autorevole maestro calabrese-argentino come Antonio Trotta rappresentato da due storici lavori 1972 – fotografie di finestre concettualmente emulsionate su vetro – al pressoché esordiente barese Stefano Romano (un disegno di edificio con vetri infranti da una misteriosa battaglia). In mezzo – anche per la posizione strategica nella corte del Castello -  si potrebbe collocare l’installazione di un’artistamidcareer come Daniela Corbascio: una sorta di capanna montata precariamente su carrelli portatili, che inalbera su forti pali di metallo e neon una giostrina di ricordi di casa materna.
Già così si delinea una fenomenologia “marginale” di frammentazioni e sdoppiamenti che trova interessanti variazioni nelle opere esposte (mi mancano ahimé i promettenti video proiettati in serie a Santa Teresa). Il tema della del nascondimento e mutazione d’identità ricorre nella installazione con maschere di lattice e nella impressionante videoperformance di Daniel Pesta (Praga 1959), come nelle fotografie digitali con volti nascosti da calze o lampade della tedesca Catrine Val. La condizione liquida della società di massa è segnalata con raffinati trascinamenti e dissipazioni d’immagini da Nora Schoepfer (Vienna 1962) mentre si esalta esteticamente con dissolvimenti di cromatismi orientali  nel videoSolipsist di Andrew Thomas Hung (miglior corto al Sundance Film Festival 2012). Altri gruppi di fotografie puntano sulla marginalità sociale e geopolitica, come Sanja Jovanovic (Serbia) e Labib M. Sharfuddin (Bangladesh). La condizione dei fuggitivi e dei rifugiati è evocata dall’allineamento (piuttosto scolastico) di coperte con cuscino per terra lungo la sala Murat, di Emanuele Saracino. E può essere una significativa sintesi della impegnativa riflessione proposta da Liquid Borders la voce dell’americana Heather Connelly che ripete nella stessa sala, in più lingue, il mantra spiazzante e invocante This is Me: come a riconoscersi e nello stesso tempo perdersi nell’Altro. Sino al 31 luglio. Info: tel. 0805234018, 3387574098.

giovedì 18 luglio 2013

"Spiaggia libera" ma non troppo per 13 artisti nostrani


“Spiaggia libera” è titolo piuttosto spiazzante, per una mostra d’arte che si tiene (insolitamente) in uno stabilimento balneare superdotato di accessi e servizi a pagamento. In effetti  i tredici artisti pugliesi che da stasera espongono nell’elegante Coco Beach Club a Marina di Cozze aspirano a portare un “pensiero divergente” fra le cabine, i pontili, la piscina, il bar, gli accoglienti spazi aperti e chiusi del complesso disteso sugli scogli con candori di legni e di teli e tocchi di azzurro. Ma “incontri e inciampi” (cito dal catalogo) avvengono con leggerezza portata sino alla discrezione. Qualche inquietudine possono procurarli ai bagnanti i fogli di acetato che Pierluca vuole far galleggiare in piscina, con su disegnati profili di corpi che “fanno il morto” – o sono morti davvero? Apparizione fantasmatica è la “finestra marina” di Raffaele Fiorella che dovrebbe accendersi in videoproiezione all’estremità di un pontile – se il telo resisterà a vento e onde. Attende il calar delle tenebre per rivelarsi nella sua interezza, la scritta misteriosa composta da Pamela Campagna su una staccionata: “Quando il giorno” (in vernice fosforescente) “incontra la notte” (in caratteri di adesivo nero). Recidivo in sberleffi è Gianmaria Giannetti, autore di un video nel quale si esibisce travestito da geisha su fondo musicale da Gino Paoli, e non chiediamogli perché.
Declinano sul poetico gli altri interventi. Due barchettine di pescatori sovrapposte a comporre una specie di valva o gheriglio confermano le fantasie metamorfiche di Giuseppe Teofilo.  Ispirano tenerezza precaria i legnetti  passati di bianco e raccolti pietosamente sotto teca al cospetto del mare dal sedicenne Davide Partipilo, ancora studente di Accademia. Una new entry la sua: come piace ad Elisabetta Longo e Gaetano Gagliardi, la coppia titolare della Beluga Gallery di Rutigliano che ha promosso l’evento con il sostegno del titolare del Coco, Gianfranco Chiarappa. Da loro ha esordito mesi fa anche Chiara Gatto, 23 anni: la paretina interna di una cabina è location ideale per accogliere la grazia sghemba, di minimale surrealismo, del suo quadretto con terrazza assolata su cui fugge un gatto. Ha invece voglia di farsi largo Stefano Romano, 20 anni, con un’altra prova di “concept art”, ovvero il design visionario sul quale si va applicando a New York. Non hanno bisogno di collaudo la visionarietà animistica della medusa acquerellata da Pierpaolo Miccolis, il realismo ambiguo della coppia di bimbi dipinta Jara Marzulli, i fini disegni di giochi di Aldo Berardi, il naturalismo astrattivo delle foto di Ombretta Favino.
Sovrasta il tutto la scritta al neon di Daniela Corbascio: “Sud” con tanto di freccia puntata verso il Canale d’Otranto, a sostenere senza esitazioni la direzione identitaria dell’evento. 
Sino al 25 agosto, tutti i giorni dalle 8.30 a mezzanotte, sul Lungomare Zara 35. 
Per info: cell. 3318429862 (Coco Beach) 3475495188 (Beluga).

giovedì 4 luglio 2013

La Street Art e Bari: come quando perché, appunti per pensarci su

sten & lex ex standa corso vittorio emanuele

erica il cane e blu liceo socrate via fanelli

ozmo al chiringuito

Da un po’ di giorni una vasta operazione di Street Art investe diversi edifici e spazi pubblici di Bari, fra curiosità della gente sollecitata anche dall’eco mediatico di disparate reazioni polemiche: non dal pubblico in verità, piuttosto da politici e amministrazioni. Non fanno scandalo infatti i soggetti degli interventi eseguiti da sei giovani autori italiani e stranieri, ben noti nel giro nomade della pittura murale, per un progetto promosso dalla galleria barese Doppelgaenger e sostenuto con entusiasmo straripante dal sindaco Emiliano. L’ampiezza del progetto ha il merito di richiamare l’attenzione sul muralismo come espansione spettacolare e sviluppo professionale della street art originaria, quella spontaneista dei writers ovvero graffitisti. I quali proliferano nelle nostre città come in tutto il mondo, continuando a praticare in forme e stili diversi illettering esploso da mezzo secolo ormai: da quando i ragazzi dei ghetti di New York cominciarono ad attaccare con pennarelli e bombolette treni e stazioni delle subways, apponendovi le loro firme in codice, le tag come messaggio trasgressivo ed effimero di liberazione identitaria. Ancora oggi l’opinione pubblica e le autorità stentano a distinguere gli ideogrammi vivaci ma ormai autoreferenziali di volenterosi figli della borghesia dagli sfregi vandalici degli imbrattamuri, che sono poi la grande maggioranza. C’è qualche vago tentativo pubblico di mettergli a disposizione spazi di sfogo in aree di periferia, ma i duri e puri non ci stanno a snaturarsi.
Il virtuoso muralismo dei “fresh flaneurs”di Bari (titolo della operazione Doppelgaenger) esprime invece l’ala socialmente vincente della street art. Ha preso il largo dalla fine dei Settanta, da quando alcuni graffitari furono fagocitati dal sistema capitalistico dell’arte, gallerie, aste, fiere, festival. Straordinarie storie personali - Basquiat adottato da Warhol nella sua Factory, Keith Haring assunto da Tony Shafrazy - hanno favorito l’attrazione per gli stilemi street, passati dai muri delle città al sistema del merchandising e del look giovanile postpop, dalle tshirt agli zaini, per dire. Per parte sua, l’arte sui muri urbani è divenuta produzione di immaginario postmoderno che attinge disinvoltamente alle diverse tradizioni della pittura, realismo popolare, astrazione colta, iconismo mediale, phantasy. Pittura a cielo aperto felicemente provvisoria e programmaticamente superficiale, praticata da autori che delle origini trasgressive hanno mantenuto solo la convenzione del nome in codice e magari ogni tanto qualche multa che fa parte del gioco. Gioco portato a metodo coerente da Banksy, l’eccellente street artist inglese divenuto famoso per la carica ironica e critica delle sue scene; ma soprattutto perché ancora adesso non rivela la sua identità, opera o finge di operare clandestinamente, non si lamenta se i suoi stencil sono cancellati o strappati dal muro. Così la  popolarità cresce, le vendite volano in rete e nelle aste.
Anche i bravi street artists convenuti a Bari vendono: sui loro siti web o esponendo in galleria, contando sull’effetto – trailer dei murales. Ma i promotori dell’evento puntano più in alto. Vorrebbero rendere permanenti le installazioni, altrimenti destinate a cancellazione entro 120 giorni al massimo. Però a questo punto il gioco cambia, e di parecchio. Perché gli spiazzamenti linguistici e i parti di libera fantasia visiva diverrebbero opere di arte pubblica. Cambierebbero ruolo e significato, richiamerebbero il problema della responsabilità sociale dell’arte. Molte stagioni del muralismo si sono nutrite di impegno sociale e politico – dal Messico della Revoluciòn al New Deal rooseveltiano sino alla sessantottesca Immaginazione al Potere. Invece le immaginose figurazioni sui muri di Bari ambiscono a farsi arredo urbano per godimento retinico, esperienza “decorativa” (nel senso di “conferire decoro” agli spazi), museo di sorprese visive a cielo aperto per la meraviglia di flotte di crocieristi. E’ l’idea che piace al Sindaco, molto meno alle Soprintendenze. Si può anche fare. Ma avvertendo che lo spirito alternativo dell’ “arte di strada” è migrato altrove. Aleggia in diversi percorsi di arte pubblica di nuovo genere, multimediali, relazionali, partecipativi, anche virtuali. Ma questo è già un altro discorso, un altro orizzonte.
PIETRO MARINO
................


Non mancano di vitalità le opere di street art eseguite a Bari dai sei autori invitati per il progetto “Fresh Flaneurs”, tutti molto noti nel loro ambito. Lo spagnolo Sam3 ha quasi trasformato in timpano di tempio classico il frontone dell’abbandonata caserma Rossani sagomando in liquida vernice nera un accumulo crescente di corpi umani. Il milanese Ozmo  ha nobilitato una vasta nicchia dell’inquinato sottovia di Quintino Sella come fosse una cripta basiliana o un catino absidale, dipingendovi con tempere e bombolette (e con un bel po’ di ironia) un trittico su San Nicola barese, ortodosso, Santa Claus. Un altro suo spiritoso medaglione ghigna sul Chiringuito. Il duo romano-tarantino Sten&Lex è quello che ha suscitato i più alti clamori, rivestendo di strisce nere a zigzag e losanghe – con la tecnica dello stencil -  l’intera anonima facciata dell’ex edificio della Standa su corso Vittorio Emanuele. Interessante l’effetto optical di distorsione dinamica delle pareti, meno credibile la dichiarata ispirazione alle fasce bicromatiche del Duomo di Orvieto. Di elegante astrazione è il “fregio” volante sul palazzotto Eaap in piazza Diaz del piemontese 108 (aveva già esposto da Doppelgaenger due mesi fa). Lì stesso dovrebbe cimentarsi il francese El Tono. Gli spiritelli grotteschi del terzetto belga Hell’O’Monsters animano la ex scuola Verga a Japigia.
Sarà il caso di ricordare, nella città senza memoria, che il muralismo in spazi pubblici non è fenomeno nuovo nemmeno per Bari. Da anni un murale dipinto da Erica il cane e da Blu avvolge con fantasia tenera l’edificio del Liceo Socrate in via Fanelli. Il Comune che ha opportunamente messo a disposizione i ponteggi dell’AMIU per consentire a Sten&Lex di stendere le loro vibrazioni in bianconero potrebbe anche decidersi a proteggere le vibrazioni cromatiche del wall drawing di Sol Lewitt nella vicina Sala Murat. Del resto in Puglia da cinque anni si tiene a Grottaglie un Fame Festival internazionale di street art frequentato da validi artisti. Ma quasi nessuno sa della sua esistenza, e nemmeno nel paese dei vasai sembra molto amato.  (p.mar.)

L'arte degli italiani alla Biennale di Venezia: la calma dopo la tempesta . Con un po' di Puglia, anche...

Francesco Arena -Massa sepolta, 2013

Flavio Favelli - La Cupola 2013

Luigi Ghirri - Alpe di Siusi, 1979

Chiara Fumai -I did not Say or Mean Warning, 2013


Ritorniamo a Venezia. Per uno sguardo più attento al Padiglione Italia che rappresenta ufficialmente il nostro Paese nella 55. Biennale d’arte contemporanea. Lo fa con 14 artisti selezionati da Bartolomeo Pietromarchi, direttore del MACRO, il Museo comunale d’arte contemporanea di Roma. Fra loro c’è l’unico “pugliese di Puglia “, il brindisino Francesco Arena (classe 1978) che vive a Cassano Murge. Si è affermato fra gli autori di nuova generazione che praticano un neoconcettualismo rivolto alla rielaborazione linguistica di eventi della storia recente. Nell’Arsenale ha installato quattro cassoni blindati come “torri” alte 7 metri ripiene di terreno. Non si vede all’esterno, il peso complessivo corrisponderebbe a quello del corpo dell’autore moltiplicato per il numero delle vittime sepolte in fosse comuni durante quattro episodi di guerre civili del Novecento, in Spagna, Italia, Bosnia e Kosovo. La freddezza analitica è il metodo col quale l’artista distanzia in implacabile allucinazione l’impatto emotivo delle storie. Esemplare la cassa che ricostruiva la cella di Aldo Moro, 2004. Qui il suo straniante minimalismo risente di qualche eccesso di inerzia monumentale. Anche per la contiguità con la coinvolgente performance di una ragazza che lentamente si spoglia della divisa di giovane fascista per ostentare la sua liberata nudità: remake di una storica performance 1973 dello scomparso Fabio Mauri, “Ideologia e Natura”, con la quale la “Massa sepolta” di Arena è stata accoppiata sul tema Corpo –Storia.  
Infatti la rassegna curata con ricerca sin troppo diplomatica di equilibri linguistici e generazionali da Pietromarchi scandisce le quattordici presenze in sette “ambienti” su temi duali sin dal titolo, “Vice Versa”. Lettura di “categorie italiane” che riprende ed estende gli schemi dialettici suggeriti per la letteratura da un noto saggio 1996 di Giorgio Agamben, riedito da Laterza nel 2010. Dove polarità come tragedia e commedia, lingua colta e lingua popolare, orfismo e lirismo si tengono in tensione ambivalente, quasi facce di stesse medaglie. Con  attitudine alla mediazione formale, se non al compromesso, che stenta ad affermarsi nel confronto con le “geopolitiche dell’arte” (Dantini 2012) dominanti nella postmodernità occidentale.
 “Vice Versa” prova a risalire la china (fattasi rovinosa dopo il caos sgarbiano del 2011) puntando sulla qualità complessiva dell’offerta e su alcuni nomi di acquisita autorevolezza identitaria. Come Mauri appunto e un altro grande scomparso, Luigi Ghirri. Del celebrato fotografo è rilanciato lo storico “Viaggio in Italia”, la rassegna da lui curata nella Pinacoteca di Bari nel 1984 con i “nostri” Gianni Leone ed Enzo Velati. Si è scritto tante volte della sua importanza: come rivelazione di un diverso “paesaggio italiano” e come  svolta nella cultura dell’immagine. Va ricordato il contributo barese a quella operazione. Anche perché oltre alla cospicua parte di immagini di Ghirri, figurano in mostra diverse fotografie anche dei baresi Gianni Leone e Carlo Garzia e di altri protagonisti a noi vicini come Mario Cresci. Un sentore di Puglia popular promana infine dalla maestosa cupola di cassarmonica prelevata in Salento da Flavio Favelli: l’artista tosco-emiliano l’ha montata nel padiglione proseguendo nella ricomposizione di frammenti della memoria personale e collettiva.
Fra i viventi di vecchia generazione, tengono botta il 98enne Baruchello con una installazione di levità pensante e il settantenne Giulio Paolini con le sue inquietudini formali. Non al meglio della forma, su opposti versanti, i midcareer Marco Tirelli con una parete di repertori figurali e Massimo Bartolini.con un accidentato sentiero di bronzo. Elisabetta Benassi non scherza per concettualismo archivistico con un forte pavimento di diecimila mattoni fatti con terre ex alluvionate del Polesine su cui sono incisi i codici di riconoscimento dei frammenti spaziali NASA. Mentre Luca Vitone diffonde nell’aria sentori di essenze di rabarbaro per evocare le pestilenziali polveri dell’eternit di Casale Monferrato. E sembrano avere “braccino corto” - come si dice nel tennis - i più giovani. Il lambiccato apparato installativo-performativo di Marcello Maloberti; il calviniano barbiere all’opera su un albero di Sisley Xhafa; il blocco di cemento impastato con polvere d’oro di Piero Golia; la lastra dilavata con impulsi sonori da Francesca Grilli.
  Si compone comunque un quadro italico di partecipazione alle inquietudini contemporanee segnato – fa notare Stefano Chiodi – dalla oscillazione fra “grumo di straniamento e desiderio di continuità”. Alcune scelte potevano essere diverse, c’è troppo “usato sicuro”. Ma viene ristabilita la serietà della ricerca, la dignità problematica della proposta.  Non è poco nell’Italia di oggi.
PIETRO MARINO
............



Fra gli eventi d’arte  che occupano Venezia in occasione della Biennale 2013, di particolare interesse per i pugliesi è la performance di Chiara Fumai, vincitrice del premio Furla per giovani artisti italiani, nella Fondazione Querini Stampalia. Chiara (Roma 1978) vive a Milano, ma il padre è barese, a Bari vivono entrambi i genitori e a qui lei ha vissuto e studiato sino al liceo. A Bari ha compiuto alcune tappe significative della sua rapida emersione sulla scena non solo nazionale (basta ricordare la partecipazione a Documenta Kassel 2012). Si è affermata per singolari invenzioni concettual - performative nelle quali il femminismo “politico” s’impasta con l’esoterismo in storie sospese ambiguamente fra memoria privata e finzione letteraria. Dice (mentendo) di non volerci allarmare con la performance che ha ideato per Venezia (“I did not Say or Mean Warning”). La tiene di persona due volte al giorno, in italiano e in inglese, per gruppi ristretti (sino al 30 giugno). Si tratta di una “visita guidata” alla collezione della prestigiosa Fondazione veneziana, con quadri e statue, mobili e arredi di Sette - Ottocento. L’artista conduce il pubblico nelle singole sale con compitezza professionale. Si sofferma in ciascuna a spiegare un’opera in particolare, specie quelle in cui appaiono donne della Bibbia o della storia. A tratti, di colpo, il freddo rigore della narrazione s’interrompe, Chiara perde la voce, assume una espressione cattiva, comunica qualcosa con i gesti dei sordomuti. Dev’essere una storia violenta, perché si conclude con un accenno di taglio di gola (è la registrazione della telefonata di una brigatista rossa negli anni 70 che confida la sua rabbia di donna nel contesto della lotta armata). Dopodiché riprende come nulla fosse il filo del discorso. Il pubblico è come catturato nella trappola degli spiazzamenti mentali, esaltati dal contesto museale. La registrazione della performance è proiettata su monitor collocati in diversi spazi della Fondazione. Poi il video passerà nella collezione del Mambo di Bologna (p. mar.)






Arte a New York: ma è ancora il centro del mondo? (per "Empire State", mostra a Roma)

New York è stata per almeno mezzo secolo, dal dopoguerra, la capitale mondiale dell’arte contemporanea. Ma lo è ancora? Il dubbio ritorna visitando una mostra in corso a Roma nel Palazzo delle Esposizioni che intende rappresentare con 20 autori “l’arte a New York oggi”. S’intitola “Empire State”, citando lo storico appellativo della New York City coniato orgogliosamente ai tempi di George Washington. Che le cose siano cambiate lo riconosce “sir” Norman Rosenthal, l’anziano e autorevole critico inglese che ha curato la mostra con un rampante curatore newyorchese, Alex Gartenfeld, 26 anni: “una vera e propria esplosione artistica si è diffusa in tutto il pianeta”. Effetto della “nuvola informatica” ma anche di nuovi protagonismi sia dall’Europa (Londra, Berlino) sia dall’Estremo Oriente. Tuttavia si è accelerata la “trasformazione dell’arte in un’industria di livello mondiale “ e New York è l’epicentro del “capitalismo globale” (scrivevano Antonio Negri e Michael Hardt in “Empire”, 2000). Rimane il cuore del mercato internazionale dell’arte e continua ad essere melting pot attrattivo per gli artisti. Anzi si è trasformata in “città spettacolo”, sostiene Tom McDonough in uno dei testi nel denso catalogo Skira, citando “La società dello spettacolo” di Guy Debord (1967). Ne vede un segno nella “gentrificazione” dei quartieri popolari della città da parte di una borghesia in cerca dell’autenticità perduta. Con un effetto paradossale : ”Cacciando via i poveri, le automobili e gli immigrati, facendo ordine, eliminando i germi, la piccola borghesia annienta esattamente ciò che è venuta a cercare”.
Così “l’autenticità” del passato e del vissuto si trasforma in feticcio e simulacro - il Kitsch, in sostanza. Del resto l’identificazione dell’opera d’arte come merce ebbe proprio a New York il suo lucido profeta, Andy Warhol. Eredità raccolta da Jeff Koons che contamina ironicamente classicità e banalità: come la “scultura” di Venere in acciaio lucidato in verde con un vaso di fiori accanto. Con maggiore finezza di concetto e di gesto, un artistar come Julian Schnabel sovrappone imperiosi arabeschi pittorici a ingrandimenti fotografici di pannelli ottocenteschi che raffigurano una vittoriosa battaglia indipendentista di George Washington. Capofila di alcuni interessanti tentativi di reinventare i linguaggi diffusi dalla fucina di New York. Michele Abeles cita le Bandieredi Jasper Johns in scomposizioni digitali. Joyce Pensato stravolge il Paperino dei fumetti con pittura in bianconero da action painting, energica e drammatica. All’opposto, Wade Guyton riprende il gigantismo inespressivo della pittura minimal producendo con stampante a getto d’inchiostro 15 metri di strisce orizzontali verdi e rosse su teli di lino.
Ben pochi – almeno nelle scelte talvolta opinabili dell’Empire State – si sottraggono alle pratiche postmoderne del simulacro, che l’arte europea va contestando. Rincorre spettacolarità ludica Rob Pruitt, contrapponendo un gigantesco stegosauro in fiberglass nero ad una parete di  “quadri” iperrealisti con accumuli di libri. Un pastiche visionario è  il “ciborio” di Keith Damier che s’innalza nella rotonda. La sua struttura in acciaio vuole citare la vecchia Penn Station demolita nel 1963 e insieme la struttura a cupola del Pantheon romano; mentre finte ostriche si accumulano ai piedi dell’edicola, a ricordo di quelle che il porto inquinato di New York non produce più…
C’è più esperienza viva della scena urbana nei padiglioni trasparenti del grande Dan Graham, che moltiplicano e confondono percezioni spaziali (in mostra i modelli). Traspare l’anima critica di New York nel video Les Goddesses di Moyra Davey: si aggira con la telecamera nella sua stanza in un grattacielo che lascia indovinare la vita che si svolge fuori, mentre emergono da pagine e foto storie sue, di Goethe, di Freud, di Fassbinder che lei dice con voce che tentenna e sbaglia. E Adrian Piper, esponente storica del concettualismo analitico (non a caso è andata a vivere a Berlino) ci lascia con quattro lavagne sulle quali ha scritto a mano 25 volte, col gesso di scuola, la frase “Tutto sarà portato via”. Minaccia o promessa, profezia o desiderio?

*La mostra “Empire – Arte a New York oggi” è aperta a Roma nel Palazzo delle Esposizioni (via Nazionale) sino al 21 luglio. 
Orari: 10-20, venerdì e sabato 10-22.30, lunedì chiuso. 
Ingresso  euro 12,50, ridotto 10. Catalogo Skira. 
Info: palazzoesposizioni.it

giovedì 23 maggio 2013

Da Bari a Venezia la Malinconia in pose diverse

Sono dedicate a Cristiano De Gaetano, l’artista tarantino scomparso a soli 37 anni, le fotografie che Nicola Vinci espone per la prima volta a Bari nella galleria Doppelgaenger, per una mostra a due con Andreas Senoner, giovane scultore altoatesino. Nicola che da diverso tempo vive a Verona, è coetaneo e conterraneo  di Cristiano (è nato a Castellaneta nel 1975). Ha condiviso gli studi nell’Accademia di Bari –Mola. Esposero insieme a Bari nel 2007 per una mostra sul tema “Children” nella galleria Muratcentoventidue. Da anni Vinci mette in pose di straniante e struggente malinconia bambini e bambine solitari o in coppia, in stanzoni svuotati e degradati dall’abbandono del tempo, con porte che si socchiudono su vuoti di ombra. Nella serie di immagini digitali 2013  appare un bambino che indossa un costumino con scheletro dipinto, patetico più che macabro. Sembra voler giocare con la morte piuttosto che annunciarla. Lo osserva un fantasma di bambina in rosa, mentre per terra sono sparsi fogli di quaderni e pubblicazioni, anche di arte. La sofisticata tecnica di stampa gicléé accentua l’aura da pittura simbolista delle scene. Sono di bambini, anzi di ragazzi anche le statuine solitarie in legno dipinto che Senoner, 31 anni, erige con più compassata stupefazione di sguardi, fra primitivismo ben educato e realismo magico novecentista (c’entrano gli studi nell’Accademia di Firenze?). Non c’è desolazione ma elegia di tempo sospeso o perso, con tocchi di surreale ironia: un paio di orecchi mickey mouse, un vestito di piume blu-nere, una sospensione in gabbia di uccello…
Mentre il Dittico (curato e commentato – come le mostre precedenti - da Vittorio Parisi) è in corso in Palazzo Verrone sino al 21 giugno, Antonella Spano e Michele Spinelli preparano una impegnativa trasferta di Doppelgaenger a Venezia. Presentano, in concomitanza con la Biennale, la prima personale italiana di Tony Fiorentino, giovane artista nativo di Barletta che vive a Londra. Si terrà nel suggestivo spazio presso San Marco aperto da Norbert Salenbauch, il noto collezionista tedesco che due anni fa ospitò una mostra-performance di Valentina Vetturi. L’autore farà crescere in grandi ampolle di vetro alcune “sculture mutanti”, concrezioni che si formano da immersioni di zinchi in una soluzione di composti chimici: alchemico connubio fra arte e scienza, ispirato alla celebre Melancholia di Durer.