sabato 29 dicembre 2012

Son venuto da Parigi fin qui...(per una mostra a Bari). E poi Fata Morgana in video a Terlizzi


Per la prima volta da quando si è aperta la nuova galleria in un bel palazzo antico di Bari vecchia, Doppelgaenger non presenta la personale di un singolo artista o gruppo, ma una collettiva con quattro artisti di diversa nazionalità e di diversa estrazione culturale. Hanno in comune il più o meno ben temperato riciclaggio formale di istanze figurali tra il fantastico e il lirico, su metri di sorvegliata ironia. La più spiritosa, e – diciamo – impertinente è la tedesca Carolin Jorg, 35 anni, che sventaglia nuvolette di cartuccelle nere come fumetti su cui sono ripetute le esclamazioni “Ahah” e “Yeah” (quasi versione grafica della storica risata di De Dominicis), issa come uno stemma un groviglio dadaista di strisce di carte tracciate con inchiostro, che ammiccano – rivela lei -alle palle di peli rigurgitate dai gatti, e dissemina disegnini un po’ goffi, come è moda dai Novanta. Il più manierato è l’altoatesino Andreas Senoner, trent’anni appena (ma ne dimostra molti di più in arte): con statuine in legno dipinto di compassato surrealismo aggiorna la tradizione di scultura in legno della sua terra cara ai turisti. Riprende invece il filo di cultura grottesca che corre da Picasso ai fratelli Chapman nelle citazioni deformanti di volti e ritratti il francese Gael Davrinche, classe 1971. Sfoggia notevole virtuosismo pittorico anche in impetuose evocazioni di steli floreali in disfacimento, un po’ Twombly con eleganza francese. L’unico che usa un mezzo non pittorico è il suo connazionale Alain Delorme, 33 anni, che partecipa con straniamenti sornioni alle molte prove di finzione visiva eccitate dalla fotografia digitale. Con la serie dei Totem portati avanti dal 2009 (due in galleria) presenta portatori di carretti fotografati per le vie di Shanghai: scene di vita cinese, ma gli accumuli vistosi (alla Arman) di mobili od oggetti trasportati dai carretti sono realizzati appunto in digitale, come altri interventi che accentuano i sintomi di modernizzazione consumista nella Cina post-Mao. Mostra piacevole dunque. Ma che essa porti addirittura “una ventata di aria fresca nelle stanze chiuse di Bari” come annuncia da Parigi Vittorio Parisi, il giovane curatore di nascita barese embedded dalla galleria, beh, fa sorridere. E’ Natale: gli auguro riflessioni meno frettolose sull’arte contemporanea, miglior conoscenza della sua città, e soprattutto senso della misura. -------- Da un po’ di giorni, quando cala il buio, in una stradina del centro storico di Terlizzi una finestra gotica si illumina e vi appare una donna che colpisce rabbiosamente con un battipanni un tappeto messo a stendere. La videoproiezione che attira molto i ragazzi è di Nina Lassila, finlandese che vive a Berlino, uno dei sette videoartisti nordeuropei che partecipano al primo tempo della rassegna “Fatamorgana”. Si svolge nel palazzetto di Cinzia Cagnetta che è anche sede domestica della galleria Omphalos e l’ha curata Giuseppe Pinto, artista brindisino che si esprime concettualmente anche progettando eventi. E’ l’animatore di un “collettivo senza fissa dimora” che si chiama “Like a little disaster” e promuove “collaborazioni artistiche, esplorazioni e sperimentazioni”. Una esplorazione a tappe della videoarte internazionale vuole essere appunto “Fatamorgana” che avrà un secondo capitolo a Terlizzi tra febbraio e marzo e poi chissà. Il filo rosso che lega le apparizioni sapientemente dislocate nelle stanze della casa è non tanto l’origine degli autori, quasi tutti scandinavi. Esibiscono performances individuali di personaggi solitari che mettono in causa e in prova il corpo con azioni minime al limite di una surreale quotidianità, con “incidenti” non violenti né provocatori (assai lontana è la Body Art “storica”). Dicono di personali inquietudini, ricerche o smarrimenti di identità, di situazioni spiazzanti o disturbanti che sollecitano l’attesa e il dubbio degli spettatori. “Niente come un piccolo disastro fa distinguere le cose”, diceva un fotografo (David Hemmings) a Vanessa Redgrave in “Blow Up” di Antonioni (1966). Nella frase-chiave del film dalla quale ha preso intestazione il collettivo nomade sta in fondo la chiave di lettura esistenziale, prima che culturale, di questi video che respirano aria di Berlino con memorie da Bruce Nauman e Marina Abramovic. Così Trine Line Nedreaas mostra in tre short una donna che mangia spade tranquillamente, un omaccio nerboruto che spacca tavolette con la testa, un vecchio che divora salsicce senza posa. Soren Thilo Funder inquadra un uomo che prova a tenere fisso lo sguardo senza batter ciglio per 52’, e gli occhi ovviamente si arrossano e lacrimano. Nella stessa stanza c’è un monitor con lo schermo pudicamente rivolto contro la parete; sbirciando di lato si potrebbero intravedere i pantaloni di un uomo che si stanno bagnando di pipì (è lo stesso video di Knut Asdam visto l’anno scorso in esplicita proiezione frontale a Bari nel teatro Margherita per la mostra dal museo di Malmoe “L’uomo senza qualità”). Hannu Karjalainen segue impassibile la lenta colatura di rivoli di vernice bianca e blu sulla testa di un uomo con occhi chiusi, sin che il volto sia coperto e plasmato a modo di scultura effimera, di maschera liquida. La giovane Sini Pelkki invece contempla in piedi da un balcone, volgendo sempre le spalle al pubblico, il verde fitto di un bosco, senza perché. Infine, scendendo dall’esterno di casa Cagnetta nel buio di una cantina, ci rilassiamo su un’onda sonora quasi ipnotica ai giochi di riflessi visivi nello spazio compiuti con globo e cerchi da Sigurdur Gudjonson, artista-prestigiatore.
Il tutto è visibile in via Toselli 21 (sino al 15 gennaio) solo su appuntamento: tel. 0803512203, cinziacagnetta@gmail.com.

giovedì 27 dicembre 2012

un Corpo Luminoso sotto la chiesa di Triggiano (per un Natale d'arte)


Nel suggestivo soccorpo della Chiesa Matrice di Triggiano, una grande videoproiezione  illumina una delle pareti di fondo degli spazi sotterranei. La si può contemplare a lunga distanza da un varco aperto sulle rovine della primitiva chiesa medievale, e già così fa effetto grotta, luogo sacrale di un evento che in questo periodo non può che essere il Natale. Primi piani di corpi trasparenti come ombre nella effusione di luce calda accennano a movenze di danza moderna mentre si dispiega nella solennità di canto in tedesco un lied di Mendelssohn con la sua musica trasognata. Poi il campo visivo si allarga in panoramica su un grembo acquoreo che accoglie in controluce una rosa di nuotatrici-danzatrici mentre si distendono onde sonore da Brahms in continuità di estasi quasi ipnotica. Il video, che s’intitola “Luminous Body”, Corpo Luminoso, è di Marinella Senatore, giovane artista napoletana in ascesa internazionale consacrata l’anno scorso dalla partecipazione alla Biennale veneziana di Bice Curiger e da una vita attiva fra molte capitali, Roma, Madrid, ora Berlino.
Così, per il decimo anno di seguito, “il sacro incontra l’arte” secondo il coraggioso e generoso progetto portato avanti dal locale Archeoclub presieduto da Anna Lagioia. Definirlo Presepe sarebbe improprio. Sin dall’inizio il mite parroco don Bonerba si è rassegnato a non vedere né il bue né l’asinello e (quasi sempre) nemmeno il Bambino Gesù vegliato dalla Madonna e san Giuseppe. Dalla prima installazione di Riccardo Dalisi e poi Di Terlizzi, Sivilli, Laudisa, Tarshito, Iolanda Spagno, Michele Zaza, Bianco e Valente, Dellerba, le citazioni narrative si sono sempre più diradate e complicate. Si è chiarito che l’arte contemporanea non può che indagare in libertà il sentimento del Sacro, cioè il mistero di un Oltre che per i cristiani si illumina nel Verbo che si fa Carne.
La Nascita come espansione simbolica di corpo nella luce è proprio il contributo di meditazione laica di Marinella Senatore. Girato con un gruppo di danzatrici in Spagna, sembra provenire dalla costola di “Rosas”, il film - opera musicale in tre tempi e città che è il più recente dei suoi grandi progetti di arte pubblica e partecipativa realizzati con il coinvolgimento di migliaia di persone dei luoghi, che evocano temi di impatto politico-sociale con operazioni multimediali governate da spiccato senso formale. Fra i mezzi cari all’artista c’è anche la musica (è violinista diplomata) ma fondamentale è il cinema con le sue procedure registiche e con le tecniche di luce raffinate alla scuola di Giuseppe Rotunno.
L’installazione è visibile con visite guidate alle 19.30 il 25,26,27 dicembre e l’1,6,13,20,27 gennaio, 2 febbraio. 
Info: 334 7660514

Prismi di luce e giochi ottici nel torrione di Molfetta (con un pioniere, Alberto Biasi)


Si rianima a Molfetta il Torrione Passari, deputato ad accogliere quando può installazioni d’arte contemporanea dialoganti con gli antichi spazi. Ora lo sprofondamento cilindrico della sua cisterna accoglie un disco su cui ruotano e s’incrociano variando di velocità d’intensità e di colore, raggi di luce. E’ uno dei “light prisms” che va producendo da mezzo secolo Alberto Biasi, pioniere e protagonista del vasto movimento internazionale di arte cinetica, programmata, ghestaltica, optical che investì anche l’Italia negli anni Sessanta-Settanta del Novecento, il tempo frenetico delle neoavanguardie. In particolare fu tra i fondatori a Padova nel 1960 del Gruppo N, e nel 1961 del gruppo Nuove Tendenze, ma ha continuato a sfornare invenzioni percettive sino a tempi recenti. Lo ha portato a Molfetta per la sua prima apparizione in Puglia il giovane critico molfettese Gaetano Centrone con la collaborazione milanese di Marco Meneguzzo e della galleria Ravizza. Negli altri spazi della torre si dispongono a parete strutture a forma di disco, di rettangoli, di rombi e di triangoli costruite su sottili sistemi di lamelle bianche e nere che danno vita ad esperienze di percezione e mutevole: apparati di astrazione dinamica che assumono forme in rilievo diverse – onde, gorghi, aloni, cristalli - col solo spostarsi del punto di osservazione. Qui l’effetto cinetico non è prodotto da congegni meccanici o elettrici ma è virtuale, si compone nell’occhio dello spettatore. Una terza suggestione è offerta, nella vicina chiesetta della Morte, da grandi pannelli rivestiti di vernice fosforescente e illuminati da lampade a luce di Wood, sui quali possiamo imprimere fuggevoli ombre del nostro corpo: remake di una installazione (Eco, 1971) dello stesso Biasi, che pare intenda donarla alla città di Molfetta.
Oggi simili apparati di meraviglie ottiche sono di comune consumo fra discoteche, ritrovi, lunapark, piazze e insegne delle metropoli occidentali e d’Oriente, film e moda persino. E’ come se si sia realizzato il sogno di “ricostruzione futurista dell’universo” preconizzato dal manifesto 1915 di Balla- Depero, più che il progetto tecno-democratico del Bauhaus con Moholy-Nagy (senza dire dei Rotorilievi di Duchamp, sempre lui). Ma nel tempo in cui Biasi agì con altri grandi protagonisti come Gianni Colombo, Getulio Alviani, Enrico Castellani, le molteplici espressioni che per comodità mediatica riduciamo sotto la dizione di Op Art, intendevano superare il soggettivismo espressionista della pittura informale –  come faceva in direzione opposta ed antagonista, la Pop Art. Celebravano la fusione progressista fra arte e scienza (le teorie della percezione diffuse da Rudolf Arnheim), il sogno democratico dell’arte collettiva, anonima, antimercantile. E soprattutto praticavano una idea di arte come “opera aperta” (Umberto Eco 1962), come processo che coinvolge  un pubblico non più passivo. Era in fondo una utopia di “morte dell’arte”, sua dissoluzione in più alto ordine interiore: così sperava il più autorevole sostenitore delle nuove tendenze, Giulio Carlo Argan. In Puglia ne fu assertore lo scomparso critico tarantino Franco Sossi anche con un attivo gruppo di artisti; nella ultima Biennale di Bari del 1966 feci intervenire autori come Mari, Castellani, Uncini in una stanza optical allestita da Mimmo Castellano.
Anche quella ultima utopia modernista si disfece presto, nella morsa fra Arte Povera e Transavanguardia. Oggi, nel Duemila dei revival, i suoi protagonisti defunti o viventi godono di omaggi prestigiosi in biennali e musei. Biasi però non pare un sopravvissuto. Ha saputo aggiornare con densità di stimoli quasi sensuali le provocazioni di fantasie percettive. Ha sollecitato dialoghi al limite del surreale con i luoghi, accendendo “arcobaleni invisibili” nel buio liquido della torre, evocando con le nostre ombre impresse nella luce i fantasmi dei defunti sepolti sotto la chiesa della Morte. Si è postmodernizzato. 

giovedì 20 dicembre 2012

Quando la foto cancella il potere (a proposito di Alessandro Cirillo)



Nel Castello di Bari si raccoglie nella quiete umbratile della cappella sulla corte una singolare quadreria. Sono fotografie di medio formato scattate nell’Hermitage di San Pietroburgo, di una serie di dipinti ottocenteschi che raffigurano personaggi della corte dei Romanov, la dinastia degli zar che fu spazzata via dalla Rivoluzione d’Ottobre. Sembrerebbero opera di un dilettante allo sbaraglio. Uno che riprende quadri senza flash, anzi sfruttando solo la luce naturale da qualche vetrata. Ma lo fa dal punto sbagliato; là dove la luce si rifrange sul dipinto, e annulla il volto dei personaggi in un grumo biancastro, un alone di luminescenza sporca, mentre delle figure si intravede a malapena qualche particolare, tagli di divise, galloni o mostrine, un muso di cavallo.

Autore dell’impresa è il noto fotografo barese Alessandro Cirillo, altro che uno sprovveduto. Ha compiuto una raffinata operazione di illeggibilità e cancellazione delle immagini proprio nel museo, luogo deputato alla loro conservazione e glorificazione. Trasforma i personaggi della storia in fantasmi senza tempo. Una sorta di vanitas moderna, una metafora di meditazione sul potere, sulla sua corruzione e caduta. Analogamente, ma in senso inverso di lettura, nel 2001 Sokurov girò nell’Hermitage il film di culto L’Arca Russa, un ininterrotto piano-sequenza che faceva rivivere sala per sala le scene di storia evocate dai quadri, come un sogno che svanisce.
A Cirillo in verità sembra stare a cuore la modalità per cui la luce trasforma quasi per alchimia la figurazione in materia disfatta, la storia in luminescenza spettrale. Quasi una estetica dell’informale - come osserva Carlo Garzia curatore e presentatore della mostra. Il quale cita altre prove di rapporto col museo che hanno impegnato molti autori, Struth e Hofer, Gursky e Jodice…A me intriga molto l’esperienza linguisticamente “sovversiva” del cancellare anziché indagare (la “camera chiara” di Roland Barthes non approverebbe). E’ il mistero della fotografia, della luce che s’intromette fra realtà e visione, esplorato all’incontrario: come negli schermi bianchi di Sugimoto dove l’immagine si è cancellata per eccesso di esposizione, o nei visi dei contadini lucani che Mario Cresci faceva sparire per eccesso di movimento della fotocamera. Allora, davvero esse est percipi? Sino al 23 dicembre, orari del castello 9.30-19, mercoledì chiuso.

Sol LeWitt e Jimmie Durham: due americani a Napoli (con un occhio alla Puglia)




Come un paziente che esce da una grave operazione prova a rimettersi in piedi il MADRE, il Museo d’arte contemporanea di Napoli retto dalla Fondazione regionale Donnaregina. Ha nominato l’altro giorno il nuovo direttore Andrea Viliani. Ma il primo segnale di convalescenza è un composito omaggio a Sol LeWitt, il celebre artista americano (1928-2007) che ha trascorso molta parte di vita fra Spoleto e la costiera amalfitana (a Praiano, il paese della moglie Carol Andriaccio). In Italia ha lasciato moltissime opere fra cui spiccano iwall drawings, i disegni-dipinti su superfici murarie progettati da lui ed eseguiti da assistenti-collaboratori. Ne ha schedato ben 297 la studiosa romana Adachiara Zevi in un prezioso libro edito da Electa che pubblica anche l’ultima intervista rilasciata a lei dall’artista nel 2006. Fra di essi c’è il murale realizzato nel 2003 a Bari nella sala Murat per il tramite di Marilena Bonomo. Proprio una sua parte di immagine, il Sole o Rosone da cui s’irradiano vibrazioni esatte di tasselli cromatici, fa da logo energetico della mostra di Napoli curata dalla stessa Zevi. Anche se la rassegna parla d’altro, nelle tre sezioni in cui si articola. Punta innanzi tutto a far rivivere, alla lettera, l’artista: presenta cinque wall drawings postumi, per così dire. Infatti sono stati realizzati nel museo sulla base di suoi disegni all’inchiostro del 2007 da giovani napoletani guidati da un disegnatore della Fondazione LeWitt che ha sede a Chester nel Connecticut. Appartengono al ciclo finale degliScribbles, gli “scarabocchi” concepiti come matasse finissime di segni in grafite nera che lasciano scoperto un solco bianco al centro, quasi un brivido di luce nel buio che si addensa.
Così l’artista chiudeva con intensità austera  il cerchio di un percorso che era partito nei Sessanta innalzando la bandiera di un’arte primaria fondata sulla assolutezza di una idea progettuale che richiede solo di essere scrupolosamente tradotta nello spazio concreto. Aveva inventato moduli seriali espressi con grafismi lineari  o eretti con bianche griglie di cubi, quasi miraggi di torri, piramidi, ziggurat  (“I concettuali sono mistici più che razionalisti” sosteneva nelle sue Sentences del 1969).  L’incontro italiano con Giotto, con Piero della Francesca, con l’arte del Quattrocento favorì il passaggio dalla fredda linea analitica a dinamismi combinatori fra il disegno “piatto” e gli spazi architettonici, e la tessitura di bande, curve, isometrìe di colore sinuoso. Nei Novanta era andato “oltre la geometria” innalzando muri di cemento e dissolvendo i segni in pulviscoli di ritrovata monocromìa. Questa avventura complessa è evocata sommariamente da alcune sculture-strutture e da una quarantina di gouaches e disegni prestati da collezioni napoletane. Sceltalow cost, anche; ma supportata dai rapporti intensi dell’autore con Napoli sin dai tempi di Lucio Amelio (suoi wall drawings stanno nella stazione Materdei della metropolitana,  a Capodimonte, nella Fondazione Morra Greco).
Vengono invece dall’America le 95 opere di altri artisti che costituiscono la terza sezione della mostra, estratte dalla collezione di LeWitt (circa 4000 pezzi) gestita dalla Fondazione di Chester. Una antologia che rivela la varietà sensibile dei suoi interessi culturali. Non solo i colleghi-amici della comune stagione concettual-minimalista (spiccano lavori di Robert Mangold, Eva Hesse,  Hans Haacke, On Kawara, Dibbets). Grandi fotografi, specie protagonisti della serialità come i tedeschi August Sander e i Becher (e Muybridge citato da un suo lavoro). Anche la linea  performativa, con un raro video di  Steve Reich- Philip Glass. E la bellezza ironica e “calda” degli italiani, dal suo favorito Giulio Paolini a Boetti, da Kounellis a Merz, persino Salvo. Sino alle stampe giapponesi di Yoshiku, 1867…Non deve sorprendere: Sol LeWitt è stato uno degli ultimi sacerdoti del culto senza tempo né confini dell’Arte per l’Arte. Del sogno per il quale “anche Cubi, Quadrati e Linee fanno parte del mondo”.
*La mostra “Sol LeWitt- L’artista e i suoi artisti” è aperta nel Museo MADRE di Napoli (via Settembrini 79) sino al 1.aprile 2013. Orari: da lunedì a sabato 10.30- 19.30, domenica 10-23, martedì chiuso. Ingresso 7 euro, ridotto 3,50. 
Info: tel. 08119313016

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Due possenti radici di secolari ulivi di Puglia s’impongono come sculture informali all’ingresso della Sala Dorica nella corte del Palazzo Reale di Napoli. Aprono la mostra personale di Jimmie Durham, il 72nne artista nativo-americano di fama internazionale, allestita come evento iniziale del “Progetto XXI”. E’ una  rassegna di arte “avanzata e sperimentale” promossa dalla Fondazione Donnaregina ma affidata alle cure della Fondazione Morra Greco, che proporrà lungo tutto il 2013 nove mostre personali di autori sia emergenti che affermati e quattro “residenze d’artista”. Durham si è caricato dei monumentali objets trouvées vegetali l’estate scorsa nelle campagne di Ostuni dove Maurizio Morra Greco, il collezionista napoletano titolare della Fondazione, possiede una residenza. Da altri  ulivi pugliesi e da alberi di noce molisani ha dedotto assi di taglio sommario, blocchi rudemente sbozzati, rami denudati e li ha composti per disporre nello spazio ritmato da colonne d’ordine dorico una selva di “sculture” povere. 
I pezzi s’innalzano come sogni energetici di frammentata bellezza. Li tengono insieme placche inchiodate o morsetti di falegname, in bilico precario su colonnette treppiedi tavolini che l’artista ha scovato dai rigattieri di Napoli. Li segnano o puntellano blocchetti di grigia lava vesuviana. Si protendono come creature meticce nate da connubi ancestrali fra natura e memorie dei luoghi. Dei totem, verrebbe da dire se Durham non raccomandasse di evitare simili definizioni. Così come non ama che si esalti la sua origine di pellerossa. Non perché rinneghi la tribù cherokee dell’Arkansas nella quale è nato, mentre continua a battersi per i diritti degli indiani d’America. Ma vuole evitare l’equivoco di letture etno-folcloriche di opere che semmai interrogano il vitalismo dei luoghi incontrati. Lui da anni vive in Italia (da gennaio prossimo proprio a Napoli): ed è qui che indaga il senso profondo del rapporto che lega natura e memoria, legni e pietre con il lavoro dell’uomo. Per questo richiama come esempio l’arte del grande Brancusi. “Wood stone and friends”  s’intitola appunto la sua personale. E’ visitabile con ingresso libero sino al 27 febbraio 2013, mentre un’altra significativa sala è aperta nel MACRO di Roma. 

Pietro Marino


mercoledì 12 dicembre 2012

Penone, l'arte di rovesciare gli occhi


Il Respiro e il Soffio, lo Sguardo e la Pelle, il Cuore e il Sangue, la Memoria e la Parola. Sono le parole-chiave per definire il “corpo d’arte”di Giuseppe Penone (Garessio, Cuneo 1947), divenuto famoso per una idea di scultura come simbiosi totale fra soggettività emozionale dell’autore e la natura come  materia vivente. Termini evocati da Laurent Busine per leggere in modo unitario il complesso percorso compiuto dall’artista, nella imponente monografia curata dal critico francese per le edizioni Electa (408 pagg., 350 ill., 130 euro). Esperienza di suggestiva ambiguità, esplosa nell’ ambito delle neoavanguardie italiane degli anni Sessanta-Settanta del Novecento. Penone esordiva infatti nel 1969 sottoponendo  alberelli di un bosco a pressioni e inserzioni di materiali in ferro che sarebbero stati incorporati nella crescita, scorticando tronchi sino a mettere in luce gli anelli rivelatori dell’età vegetale, scavando travi sino a rintracciare tronco e rami originari, seppellendo foto di sé con tuberi di patate che si sarebbero impregnati del suo ritratto. Prove (tradotte in fotografie) subito inquadrate da Germano Celant nella “sua” Arte Povera . Ma gli schemi del movimento celantiano stavano stretti ad un autore che esaltava l’intuizione individuale distaccata dalle contingenze sociali e  storiche. Insieme con le pratiche processuali, con gli approcci alla concretezza della materia  -  motivi correnti nel tempo postinformale - Penone valorizzava sapienze antiche della scultura: la manualità e la tattilità, il fare artigianale, il plasmare e manipolare. Recuperava – sin dai primi Settanta - tecniche tradizionali come il calco e la fusione a cera persa, e materiali nobili come il bronzo e il marmo.
Per questo il passaggio per l’Arte Povera è appena menzionato nella monografia, nella quale si riconosce (specie nella lunga intervista con Benjamin Bullock) il progetto dell’artista di rivedersi alla luce dell’approdo attuale. Quello – consacrato da riconoscimenti internazionali come il ritorno a  Documenta 13 – che esalta la potenza installativa e la raffinatezza estetica di una scultura che investe con meraviglianti metamorfosi legni e pietre, foglie e radici, acqua ed aria. L’origine concettuale sta nel noto lavoro fotografico del 1970, Rovesciare i propri occhi (non a caso è in copertina del volume): l’artista con lenti a specchio come pupille, non vede ma fa vedere a noi il paesaggio che vi si riflette. Di qui la pratica dello spellamento, dello scavamento, del calco. Ecco le pressioni sulle palpebre e sulla pelle come “guanto del corpo” che – ingrandite in proiezione – si traducono in grandi textures grafiche e in nervature plastiche di cuoio o di marmo. Ecco i calchi di “pelli di foglie” (in preferenza di mitico alloro) traslati in tapisseries di bronzo, complicati nel 2000 da spine di acacia. Ecco la poetica dello scorrimento-ribaltamento del tempo: con le colate di bronzo o di resina rossa come parafrasi del sistema sanguigno; con i marmi di Carrara scavati a ritrovarvi le vene (Anatomie 1990); con gli sdoppiamenti di sassi levigati dallo scorrere di acque (Essere fiume, 1981), pietre di fiume che si posano anche come nidi fra rami d’albero come a Kassel. Altre operazioni chiamano in causa moti di acqua –Propagazione 1997 di centri concentrici creati col dito  -  e di aria (dai Soffi di creta 1978 aiSoffi di foglie 1979 sino a Respirare l’ombra, 1997-2002).
Si è accentuata insomma nel tempo una poetica dell’antropomorfismo che sublima particolari di natura in monumentali evocazioni di cuori, polmoni, cervelli, arti umani. Con variazioni infinite che sfociano talvolta in manierismo virtuoso. Ma al centro della invenzione dell’artista sta un vitalismo, o “animismo ragionato” capace di esaltarsi in metafore spazio-temporali. Come l’Albero delle vocali in bronzo che giace dal 2000 come tronco disteso nel giardino delle Tuileries a Parigi, al quale dedica un saggio Didier Semin. Attorno vi crescono cinque alberi veri di specie diverse, quasi a comporre un “pantheon della natura”. Lo conferma lo stesso Penone, autocelebrandosi in uno dei suoi pensieri che contribuiscono alla completezza di apparati del volume: “Nel mese di maggio del 1969 sono entrato nella foresta del legno e ho iniziato un cammino nel tempo lento, riflessivo e sorpreso, attento ad ogni piccola forma racchiusa nel fluido legno. E’ allora che questa cattedrale è sorta dal mondo muto della materia, per entrare in quello della scultura e dell’uso poetico del reale”.

venerdì 7 dicembre 2012

Nathalie Djurberg, la ragazza svedese che sconvolge il museo di Pino Pascali


Una buia foresta di nove spettrali alberi senza fronde si erge nel salone centrale del Museo Pascali a Polignano a Mare. Sul pavimento, sotto i neri tronchi di polistirolo, scorrono in videoanimazione i pupazzi deformati di tre donne nude che attaccano un incauto giovane voyeur che le spiava nel bosco, lo violentano e lo bruciano vivo (Johnny, 2008). Un’altraclaymation – cioè animazione con pupazzi di plastilina o creta – si proietta sulla parete di fondo. Si vede il cadavere di una donna nuda che si decompone orrendamente ai margini di una foresta; ma appaiono come in un cartone disneyano una talpa e un procione che insinuandosi nello scheletro della donna la fanno  rivivere trasformata in uno strano mostro (Turn into me, 2008). Intanto nell’ambiente si diffonde in svolgimento ossessivo, quasi ipnotico, un track musicale tecno-minimalista. Con questo impatto spettacolare, affascinante e inquietante, si presenta al pubblico pugliese Nathalie Djurberg, la giovane (1978) artista svedese che aggiunge al suo già prestigioso palmares internazionale il premio Pino Pascali 2012. Ma condividendolo per la prima volta col compagno di vita e di arte, il connazionale coetaneo musicista Hans Berg, autore delle colonne sonore di tutte le sue animazioni sin da quando si misero insieme a Berlino nel 2004, la città dove vivono e lavorano.
Dell’ascesa veloce di Nathalie ho segnalato diverse tappe: da quando la notai  nella Biennale di Berlino 2006 “Uomini e topi” curata dalla coppia italiana Cattelan-Gioni (l’anno prima l’aveva lanciata a Milano Giò Marconi) alla sala della Biennale di Venezia 2009 che la premiò con il Leone d’Argento come migliore artista giovane, sino alla apparizione a Bari nel teatro Margherita nel 2011 per la mostra di videoarte dal museo di Malmoe “L’uomo senza qualità”. Il segreto primo del suo successo sta in una ambigua fascinazione: tra la sollecitazione fantastica e la seduzione visiva dei pupazzi umani e animali manipolati con “eccessive” deformazioni e scomposizioni da “cinema per ragazzi” o da teatro di marionette, e lo spiazzante turbamento indotto dalla tensione drammatica dei temi trattati. Sono ossessioni e perversioni sessuali, vizi e violenze della condizione umana, la lotta tra vita e morte, tra corruzione e metamorfosi dei corpi.
Così l’arte “scandalosa” della Djurberg si inscrive nella vasta cultura del Grottesco, sviscerata da grandi studiosi come Bachtin. Tema che si svolge nel filo storico da Bosch a Goya a Bacon, da Bellmer alla Bourgeois. Con ramificazioni sempre più estese nel contemporaneo, Paul Mc Carthy e i fratelli Chapman (premio Pascali 2010) come esempi più vicini. Ma nelle letture giovanili della bionda ragazza svedese, figlia di una marionettista, ci devono essere state le avventure “pornografiche” della “Storia dell’occhio” di Georges Bataille (1928), prodotto della cultura surreal - freudiana  diffusa nel Novecento europeo. Lo confermano citazioni quasi puntuali. Come nell’intenso  “Didn’t you know I’m made of butter ? (2011) proiettato in altra saletta, con un toro bianco che si accoppia lascivamente  in un salotto con una donna la quale si scioglie “come burro nella sabbia”, e in The Prostitute (2008) una installazione nella quale una bambolona in plexiglass discinta e vistosa accovacciata su un letto chiuso da drappeggi rossi ostentava al  voyeurismo del pubblico un deretano acceso da un video con prestazioni sessuali hard. A Polignano ne troneggia, a mo’ di teatrino, il divertente (e più castigato) modello in scala ridotta.
Bisogna dire che il mondo di Nathalie si è presto incupito ed inasprito dopo gli esordi che dal 2005 proponevano situazioni in interni borghesi di più sciolta satira, quasi comiche (come, a Berlino, la tigre che leccava il lato B di una ragazza), anche con inserzioni fumettistiche. Un passaggio di crisi è segnato dal video 2007, l’unico con animazione grafica in carboncino, “Naturalmente mi occupo di magia”, dove il processo di scomposizione di una donna nuda è espresso con livido disegno cavernicolo e scrittura che si disfà. La svolta fu segnata dalla mostra del 2008 “Turn into me” curata a Milano da Germano Celant nella Fondazione Prada, da cui provengono le opere esposte. Infatti Miuccia Prada (“la nuova Peggy Guggenheim”, è stato scritto) ha acquisito in blocco (quasi) tutta la produzione della Djurberg e la porta in giro per il mondo, con mostre blockbuster come questa nel museo Pascali .
Mostre nelle quali la spettacolarità installativa con elementi plastici e stoffe assume rilievo sempre crescente, anche per l’incalzante commento musicale di Hans Berg con sequenze di timbri elettronici fra il mentale e il cosmico. Visioni che esplodono in umore noir  nella esibizione di due Balene (2009-10) spiaggiate con i neri corpi di gomma squartati sino ad esibire i resti di bimbi divorati. Come sono lontane le balene bianche di Pino Pascali, con le loro metafisiche sezioni di pura tela emergenti da silenziosi miti mediterranei.   
PIETRO MARINO
  
 * Si svolge oggi alle 19 a Polignano a Mare nella Fondazione Museo Pino Pascali (via Parco del Lauro 119) la cerimonia di consegna del premio Pascali 2012 all’artista Nathalie Djurberg e al musicista Hans Berg, attribuito da una commissione composta da Rosalba Branà direttrice del Museo, Roberto Lacarbonara, Mariapaola Spinelli. Partecipano il sindaco di Polignano e presidente della Fondazione Domenico Vitto  e l’assessore regionale a Mediterraneo Cultura e Turismo Silvia Godelli.Vengono anche presentati, con l’assessore provinciale alla Cultura Nuccio Altieri e Clara Gelao direttrice della Pinacoteca Provinciale di Bari, l’opera di Pino Pascali  “9mq. di Pozzanghere” concessa in comodato dalla Provincia di Bari e il nuovo allestimento della videoinstallazione “Frammenti della Battaglia” di Studio Azzurro. La mostra Djurberg - Berg rimarrà aperta sino al 27 gennaio 2013. Orari: 11-13 e 17-21, lunedì chiuso. 

Info: tel. 0804249354 - cell. 3332091920
www.museopinopascali.it - segreteria@museopinopascali.it

mercoledì 28 novembre 2012

Le ore blu di Jan Fabre a Barletta


L’Arte è una Medusa: è bella, è mitica, affascina ma sorprende ed urtica. Ce ne avverte Jan Fabre, il celebrato maestro fiammingo, col titolo della sua retrospettiva che si inaugura oggi a Barletta in Palazzo della Marra, aperto  per la prima volta ad  un artista che non sia… del tempo di De Nittis (ma figuriamoci: stiamo parlando del primo autore contemporaneo chiamato a violare, nel 2008, il tempio del Louvre). La scritta “Art is a Medusa” appariva in un disegno del 1987 nella quale il fantasma nero della medusa galleggia dentro un fondale di intenso blu tratteggiato a punta di bic. Ritroviamo il quadretto accanto ad un altro simmetrico pensamento visivo - un paguro con la scritta “Art is my Home” -  nella stanza finale della mostra. Lì si conclude un percorso scandito per nitide stanze con misura selettiva, di opere eseguite  nel tempo lungo (1987-1992) del ciclo “L’Ora Blu”:  “un blu di profondità oscure nelle quali si può indovinare cosa cova di nascosto, ma senza alcuna certezza”(Bart Verschaffel). Sogni e incubi evocati con tecnica di raffinata semplicità,  matrici surreal-simboliste di una immaginazione che si sarebbe poi sfrenata in invenzioni di provocante visionarietà.
Ne scrissi anche in occasione della mostra che Fabre tenne nel 2008 a Polignano ricevendo il premio Pino Pascali, dove apparivano tre grandi “disegni” di quel ciclo. Di diverso soggetto sono le carte monumentali esibite a Barletta. Con virtuose soluzioni di découpagee sagomazioni “in negativo” dal fondo bianco della carta, lampeggiano segnaletiche di Spade e Pugnali accanto a Croci con girandole di sole e falci di luna. Nei cicli in piccolo formato folleggiano meraviglianti metamorfosi, elmi-pesce, animali-arma.
S’intreccia con la saga del Blu onirico un altro leitmotiv archetipico, il Castello. E’ annunciato in inizio di percorso da quattro disegnini dei primi 2000:  l’autore appunta schizzi di castelli nordici come fogli di diario e li bagna con lacrime versate per i più diversi motivi, amore o cipolla. Il tema si dispiega col “Progetto Tivoli”. Nel 1990  Fabre fece rivestire interamente con pannelli di stoffa trattati in blu da 130mila penne a sfera, un intero castelletto nel “parco Tivoli” a Mechelen-Malines, presso Anversa (quasi un controcanto beffardo agli involucri di Christo). Dentro una suggestiva stanza del museo rivestita di nero l’edificio si staglia in videoproiezione con la sua tintura da favola, fra scorrimenti di nuvole e brividi di acque ottenuti con tempi  compressi di ripresa. Inoltre particolari architettonici e di arredo del castello, ritagliati in stilizzati rilievi blu su pannelli con fondo argentato, danno vita ad una  serie (molto rara) di multipli ironicamente decorativi. Un’altra sala nera accoglie lo storico video “Questa pazzia è fantastica!” girato in bianconero e blu sul fiume Schelda nel 1988: l’artista affida alle acque un messaggio sul limite fra vita e morte.
Il Blu, il Castello, l’Acqua. Forse sta in questo trittico il legame che Fabre intrattiene con la Puglia. Sin dal 2006, partecipando nel castello di Monte Sant’Angelo ad Intramoenia ExtrArt, la rassegna itinerante organizzata dalla associazione Eclettica di Giusy Caroppo, lanciata ora nell’animoso progetto europeo “Watershed” del quale la mostra di oggi è tappa significativa e prestigiosa. Dentro questo intreccio si colloca un altro progetto che viene presentato nella stessa sala finale dove appare la Medusa dell’Arte, quasi a coniugare il già fatto col futuro da fare. L’artista sogna di rivestire di blu, come fece a Mechelen, un castello sul mare di Puglia. Avrebbe scelto il castello di Monopoli, che s’innalza compatto su un bel porticciolo, come confermano in mostra alcune foto “trattate” in bianconero e un videorendering. Ma non è detto. Comunque vuole annunciarlo lui in persona stasera, per uncoupe de teatre che siamo tenuti a rispettare. Perché  questo castello al momento è ancora un sogno: il progetto c’è, ben costruito, però bisogna trovare disponibilità e soldi, e parecchi. Ma Fabre avrà accanto stasera Nichi Vendola e chissà, fra sognatori ci s’intende.

*S’inaugura stasera alle 19 a Barletta, nella Pinacoteca Giuseppe De Nittis (Palazzo della Marra, via Cialdini 74) la mostra di opere di Jan Fabre “Art is a Medusa”. Sarà presente l’artista, intervengono il presidente della Regione Puglia Nichi Vendola, l’assessore regionale Silvia Godelli, il presidente della Provincia BAT Francesco Ventola, il commissario prefettizio al Comune di Barletta Anna Maria Manzone. Seguirà un “Gallery Talk” con Giusy Caroppo curatrice della mostra e Barbara De Coninck direttrice scientifica, Alberto Fiz direttore del MARCA di Catanzaro, Rosalba Branà direttrice del Museo Pascali di Polignano, Giampiero Borgia direttore della Compagnia delle Formiche, gruppo pugliese che presenta al pianoterra della Pinacoteca un video sulla sua rielaborazione, eseguita ad Anversa, del lavoro teatrale di Jan Fabre “L’Histoire des Lames”. La mostra sarà visitabile con ingresso libero sino al 28 febbraio 2013. Orari: 9-19, lunedì chiuso. Info: tel. 0883538373.  


giovedì 22 novembre 2012

Chiara Fumai alla guerra dell'arte



La “barese” Chiara Fumai (è nata a Roma nel 1978, ma a Bari vivono i suoi genitori, e da qui partì per Milano da ragazza) è tra i cinque finalisti del premio Furla, il più prestigioso concorso italiano per giovani artisti, di cui è padrino quest’anno Jimmie Durham. Il vincitore sarà proclamato in gennaio, ma già l’ingresso in selezione è importante. In palio c’è la realizzazione di un’opera che sarà presentata a Venezia nella Fondazione Querini Stampalia in occasione della Biennale 2013 e poi passerà in comodato al MAMBO di Bologna, mentre all’autore sarà offerta una residenza presso il Wiels Contemporary Art Center di Bruxelles. Comunque vada, l’artista è lanciatissima dopo l’apparizione di quest’anno sulla maggiore ribalta internazionale di arte contemporanea, Documenta 13 a Kassel, dove era stata invitata direttamente dalla direttrice Carolyn Christov- Bakargiev. Il 16 settembre scorso la grande rassegna tedesca ha festeggiato la chiusura con una misteriosa performance di Chiara (“Shut up; Actually Talk”), la quale era già apparsa sui tetti del Fridericianum per un’altra performance nei giorni di preview, sotto gli occhi di giornalisti e critici di tutto il mondo. Ancor più radicale è il progetto presentato al Furla: una “dichiarazione di guerra” in chiave anarco-femminista, promette l’artista (in questi giorni è a Bari), con doppia location tra Bologna e Praga.
Ancora una personale a Praga, una performance a Parigi (Maison Rouge) e una mostra a  Mosca sono nella sua agenda. Si dilata così il suo mondo di concettosa visionarietà che mescola spiritismo e politica, occultismo e femminismo, lampi di storia e relazioni surreali, apparizioni e finzioni intriganti. E Bari ha avuto una sua parte nella crescita dell’artista nel giro di pochi anni. Merito dei promotori, curatori e commentatori di iniziative preveggenti che l’hanno vista protagonista in città:  la performance da “donna barbuta”nelle vetrine di Mincuzzi in via Sparano per “Gemine Muse” nel 2010, l’installazione della medium Eusapia Palladino nel teatro Margherita  per la seconda edizione del premio LUM 2011, la personale (“Valerie Solanas non è nata ieri”) nella galleria Muratcentoventidue nello stesso anno. Segno che oggi, se si fugge dal Sud, almeno non si sfugge. Ma l’attenzione dei pochi non basta. Bisogna alimentare le occasioni, irrobustire le strutture. E qui, tuttora, casca l’asino.

lunedì 19 novembre 2012

Alighiero Boetti fra Ordine e Disordine: il catalogo degli anni Settanta



Le Mappe del mondo tessute come arazzi mentali nei laboratori dell’Afghanistan. I ricami di frasi incasellate con Ordine-Disordine di lettere dell’alfabeto in griglie quadrate. I fogli con lettere e/ o virgole disseminate  su fondali tratteggiati in blu con penna biro per “Mettere al mondo il mondo”. Sono alcune delle serie che hanno fatto di Alighiero Boetti (1940-1994)  l’artista italiano del secondo Novecento più apprezzato a livello internazionale con Fontana e Manzoni, ma con maggiore visibilità mediatica e gradimento di pubblico. Cicli tutti avviati negli anni Settanta: quando Boetti, spostandosi nel 1972 dalla nativa Torino a Roma, abbandona l’area dell’Arte Povera  nella quale già stentava ad incasellarsi con le installazioni oggettuali, si sbarazza del “rigore eccessivo” (parole sue) del bianco e nero fotografico e comincia “ad usare i colori, a lavorare manualmente e produrre di più”. Mette a fuoco un originale e raffinato concettualismo riscaldato di metodi ed ironia pop col quale trasgredisce gli schemi correnti nel suo tempo.
Per questo assume particolare interesse la pubblicazione per le edizioni Electa del monumentale secondo tomo del Catalogo generale  delle sue opere, a cura dell’Archivio Alighiero Boetti con la direzione scientifica di Jean-Christophe Ammann. Riguarda appunto gli anni dal 1972 al 1979, con la schedatura di ben 846 pezzi (432 pagg., 1200 ill., 200 euro). Esce, per significativa coincidenza, a ridosso della grande mostra antologica di Boetti che ha viaggiato nel 2011-12 dal Reina Sofia di Madrid alla Tate Modern di Londra al MoMa di New York e dell’omaggio resogli da Documenta Kassel. A conferma – come segnala Ammann – che la cultura postmoderna vede nell’autore italiano uno dei (pochi) protagonisti in positivo di quella “energia centrifuga” che si è sprigionata nell’arte dopo l’esaurimento, proprio negli anni Settanta, delle ultime avanguardie del Novecento.
Da allora è in atto una dissoluzione degli stili e la disintegrazione delle tendenze (lo ha riconosciuto Germano Celant nella sua rivisitazione-celebrazione dell’Arte Povera col ciclo di mostre che ha toccato nel 2011 anche Bari). Con Boetti - incalza Ammann - si apre a 360 gradi “l’orizzonte delle possibilità”, grazie all’invenzione di un sistema linguistico flessibile, di una strategia polivalente. Colpisce nell’immediato la riabilitazione dell’artigianato e della manualità, il rilancio dell’ornamento e della superficie, anche col coinvolgimento dell’Oriente nel gioco occidentale. Ma il gioco della seduzione è condotto con seriale scardinamento di  regole e tecniche, sostengono con diverse argomentazioni Giorgio Verzotti, Franco La Cecla, Laura Cherubini, Achille Bonito Oliva “interrogati” da Ammann, e Giulio Paolini in una testimonianza.
E’ un sistema concettuale messo in luce da Annemarie Sauzeau, che dell’artista fu compagna nei primi venti anni. Lo sdoppiamento di sé (Alighiero & Boetti) iniziato nei Sessanta si moltiplica nei Settanta con gli “ononimi”: gli amici e assistenti chiamati a tratteggiare i fondi con la penna biro o addirittura a disegnare gli Aerei sugli stessi fondi, a colorare le Faccine (1977) , a “disegnare” i vari codici grafici e le scritture “con mano mancina”. Sono “ononime” di Alighiero le stesse ricamatrici afgane che dal 1971 eseguono le Mappe e gli Ordini-Disordini.  Moltiplicazioni e virtuosismi metrici presiedono alle operazioni con cui l’artista fa “nominare il mondo” con procedure di ripetizione differente: le frasi ricamate sotto vari titoli, i nomi trapuntati dei Mille fiumi più lunghi del mondo(1976-82), i francobolli sulle buste dei Lavori postali (1972) .
Il concetto di “ripetizione e differenza” rinvia ovviamente a Deleuze. Ma anche  - sostiene la Sauzeau - ai testi di scrittura combinatoria praticata da Perec, Queneau, il collettivo Oulipo, nella Parigi in cui Boetti aveva sostato da giovane. Si arricchisce così l’esplorazione delbackstage concettuale dell’artista, che proseguirà negli anni prossimi con altri due tomi del Catalogo. Ma aldilà dell’interesse filologico e culturale del libro, irresistibile è il fascino ambiguo, la magia ritmica che si sprigiona con marcata identità “italiana” dalle immagini di Boetti. Un gioco ermetico annunciato da un lavoro del 1969 di fronte al quale è fotografato da Paolo Mussat-Sartor: “Niente da vedere, niente da nascondere”.

sabato 17 novembre 2012

Gino Marotta, un Eden di plastica


Gino Marotta è morto a 77 anni mentre è ancora in corso, sino a gennaio, una sua personale con opere recenti nella Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma, la città in cui era sceso da giovane dalla nativa Campobasso. Era felice di poter disporre le sue sagome colorate in metacrilato trasparente di palme, liane, dromedari, fenicotteri in dialogo con le opere dell’Ottocento-Novecento, con le Ninfeee di Monet o con quelle di Pistoletto e di Kounellis, suoi compagni d’avventura nel fervore creativo della capitale negli anni Sessanta-Settanta. Con le sue invenzioni di “Natura Artificiale” reinventata nella materia nuova, la plastica, era stato uno degli artisti di punta della Scuola di Piazza del Popolo raccolta attorno alla galleria “La Tartaruga”: con Ceroli, Kounellis appunto, e Pascali. Aveva partecipato da protagonista a tutte le mostre (come “Lo Spazio dell’Immagine” a Foligno, la mostra 1967 dove Pino Pascali espose i suoi 32mq.di Mare circa) che hanno segnato la storia  del “Pop all’italiana” . E già nel 1969 con Ceroli Kounellis e Pascali era uno dei quattro italiens  invitati nel Museo di Arti Decorative per svolgere il tema della finzione di Natura con i suoi teatrini di plastica luminescente..
Proprio la dimensione scenografica, la dimensione illusionistica del teatro gli era congeniale: lo capì Carmelo Bene, che a lui affidò le scenografie di molte dei suoi più importanti lavori, da “Nostra Signora dei Turchi”(1971) a”Homelette for Amlet”1988 (per la quale vinse il premio Ubu). Di partecipazioni prestigiose a mostre in Italia e all’estero (“Vitalità del Negativo” con Achille Bonito Oliva a Roma, Dusseldorf 1971, Biennale di Venezia 1984 con Calvesi direttore per “Arte e Ambiente”, mostra al MACRO 2009) e di titoli accademici (diresse fra l’altro l’Accademia di Belle Arti dell’Aquila) era  folto il suo curriculum. Tuttavia, dopo il break operato  dall’Arte Povera era rimasto, se non fuori gioco, piuttosto defilato dalle avventure del cambiamento, quasi consegnato alla rielaborazione virtuosa della maniera che lo aveva portato alla ribalta. Era stata un’invenzione felice, certo, la sua plastica cordiale nella quale sogni di bellezza esotica si fondevano con la lezione metafisica di De Chirico in una sorta di design della fantasia, tra Boschi Eden Paradisi. Sino alla recentissima Foresta di Menta, la selva di cavi verdi come liane in esposizione alla GNAM. E’ questo l’ultimo sbocco felicemente ludico di un percorso iniziato nei Cinquanta con giovanili strutture materiche  di Piombi e Bandoni di latta, nutrite della lezione congiunta di Burri-Jasper Johns. Su questo fecondo connubio o scambio la rilettura di quel tempo fervido della nuova arte italiana non potrà ignorare il contributo di Gino Marotta.  

giovedì 15 novembre 2012

I "paesaggi distanti" di Kristina Kvalvik, norvegese a Bari



E’ nata in Norvegia, ha studiato in Svezia, vive a Copenaghen. Si propone come sintesi ideale di cultura scandinava il percorso di Kristina Kvalvik, classe 1980. E un filo di quella  visionarietà fredda che scambia – da Strindberg a Bergman - solitudini del paesaggio baltico con smarrimenti interiori, sembra legare anche la selezione di film-video presentata a Bari dalla giovane artista per la sua prima personale in Italia. Un po’ come notammo per la rassegna di videoarte scandinava  “L’uomo senza qualità” portata l’anno scorso nel Teatro Margherita dal Museo di Malmoe. 
Proprio nel Museo di Malmoe  la Kvalvik allestì nel 2008 la videoinstallazione su due canali “Voices of the Unseen”, che a Bari è presentata – per limiti di spazio – su piccoli schermi piatti. Si vedono due strade deserte di anonima città nordica, immerse nel semibuio di una ora incerta, smangiate da fumi di nebbia. Una voce femminile fuori campo racconta in prima persona di un suo incubo all’interno di una casa, dalla quale esce e rientra con la sensazione di essere seguita da qualcuno, fra paura del “non visto” e ricerca di rassicurazione domestica. Il meccanismo di ripresa e racconto in soggettiva si conferma in “Notes from a stranger”, installazione su tre pareti per la Biennale di Goteborg 2009, anch’essa offerta qui in allineamento di monitor. Una mano invisibile scrive un diario che si svolge mentre l’autrice si inoltra “come uno straniero”,  fra  interni - esterni di doppi ambienti in abbandono ai limiti della città, quasi “dopo la catastrofe”. Invece in “Night Time Dangerer” (2010) la scrittura scorre in animazione e scompare come “traccia fluida” sul pavimento di stanze riprese in fissità fotografica, svuotate di mobili e presenze: “Ho abbracciato la morte, e sono sprofondata nel buio”.
Il paesaggio naturale diviene protagonista nell’ultimo lavoro, praticamente inedito (2012), “Distant Landascape”. Una vecchia cinepresa riprende, con inquadrature tremolanti e distanziate, nevi, acque, brughiere, ombre di monti dell’Islanda, su pellicola in 8 mm. sgranata e sbiadita. Un testo battuto su macchina da scrivere ribadisce l’andirivieni onirico fra la “terra desolata” e un ansioso “paesaggio dell’anima”. Approccio linguistico in modalità volutamente precarie ed obsolete (Rosalind Krauss parlerebbe di “reinvenzione del medium”) sottolineate dalla proiezione su un riesumato schermo portatile. Conferma, sotto il raggelato minimalismo delle immagini, la complessità del doppio movimento, o doppio sguardo, col quale l’artista-scrittrice va muovendo inquietamente alla “ricerca dell’io” (“The Wonder of the I”, è titolo della mostra e di un libretto con i suoi testi). 

Nella galleria Murat 122, sino al 5 dicembre, dal martedì al sabato 17-20. Info: tel.3938704029, 3925985840,
www.muratcentoventidue

venerdì 2 novembre 2012

Un colletto sulla pelle: grazia e crudeltà di Silvia Giambrone



Crudeli con grazia. Così definiva le sue opere Silvia Giambrone, 31enne artista siciliana-romana in grande ascesa, rispondendo di getto ad un magazine femminile. La risposta può ben introdurre all’impegnativo corpus di lavori nuovi presentati in Bari vecchia nei suggestivi ambienti di Palazzo Verrone. La chiave sta nel video proiettato a piano terra, dedotto dalla performance “Teatro Anatomico” eseguita in luglio a Roma: l’artista si fa cucire attorno al collo un colletto di pizzo bianco da educanda, con ago e filo manovrati da un chirurgo in veci di sarto. I punti sono poco cruenti, comunque lei si sottopone con concentrata severità al rito doloroso. Tenere la distanza dal dolore è necessario perché – dice sempre Silvia, probabilmente  ricordando Baudrillard – “il dolore più della pornografia è il luogo dell’osceno”. Deve cioè stare “fuori dalla scena”. Ma la bellezza dell’arte si nutre di dolore (lo diceva già Dostoievski): fa un corpo solo, come il pizzo gentile cucito sulla pelle. E l’esercizio femminile del ricamo che produce  bellezza “inutile” dichiara come la donna abbia accettato come “destino” genetico il ruolo nel quale è stata relegata dalla società maschile specie nel Sud (“sono cresciuta ad Agrigento dove i pizzi di madri e nonne si sprecavano”). Di qui l’ossimoro, la contraddizione che detta il titolo della mostra, “L’impero libero degli schiavi” su cui ragionano acutamente nell’elegante cataloghino Vittorio Parisi e Fabrizio Pizzuto. E che l’artista riassume con un lavoro all’uncinetto che richiama la struttura del DNA, con titolo a doppio senso, “Eroina”.
Su questa trama concettuale si possono leggere le intense variazioni che si dispiegano con “grazia crudele” e duttilità di soluzioni estetiche al piano superiore. La costellazione di gessi bianchi con calchi di pizzi e merletti come reperti fossili del “Made in Italy”. Le fotografie vintage di prime comunioni con i volti femminili coperti da trine nere, come dei burqa alla siciliana. “La Dote” volante di ingranditi retini di ferro e macramè in cornice, quasi celle di clausura. I ricami impressi come sudari neri su stampe fotografiche, o scavati dalle morsure degli acidi su lastre di zinco. E una barra magnetica che attrae una selva pungente di spilli si para come preziosa, lucente struttura astratta.  Da DoppelGaenger (via Verrone 8) sino al 9 dicembre, dal lunedì al venerdì 17-20.

martedì 30 ottobre 2012

Giuseppe Giacovazzo



La scomparsa di Giuseppe Giacovazzo apre troppe ferite nel corpo dei miei ricordi. Grazie a lui, amico di anni universitari, conobbi la sorella Michela che sarebbe divenuta mia moglie. Con lui, quando fu prima redattore capo della Gazzetta del Mezzogiorno e - dopo il suo ritorno dalla RAI - direttore, ho condiviso gli anni di lavoro giornalistico più intensi della mia vita. Domani lo saluteremo per l'ultima volta nella chiesa madre di Locorotondo, alle 16. Ciao Peppino, nel tuo paese vivrai.

lunedì 29 ottobre 2012

La "prima volta" di Alberta Zallone, da scienziata a fotografa



L'esordio pubblico di Alberta Zallone come fotografa a Bari mi spinge a violare una regola che mi ero dato: quella di non pubblicare su fb le mie recensioni su mostre nelle gallerie private di Bari e provincia (ovvero la "città metropolitana") che appaiono di solito ogni giovedì nella edizione "barese" della Gazzetta. Un criterio selettivo dettato dal timore di inflazionare la produzione di "note",  con conseguente sospetto di eccessivo localismo-esibizionismo.  Per la "prima volta" di Alberta, che è anche una "amica fb" farei un'eccezione, anche perché della sua mostra sui "cieli americani" è appparsa oggi , "fuorisacco", la recensione sulla Gazzetta. Un'altra versione sta per essere pubblicata sul magazine online di Flavia Pankiewicz "BridgePUgliaUsa". Magari può essere l'occasione per sentire il parere degli amici sulla opportunità di mettere in rete "tutto e di più". Intanto, ecco qui sotto il testo su Alberta pubblicato oggi sulla Gazzetta.
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Ha atteso una vita, si può dire, Alberta Zallone prima di esordire in pubblico come fotografa, lei scienziata con studi di rilievo internazionale sull’osteoporosi, docente universitaria di Istologia. Perciò assume interesse insolito la sua prima personale, che apre la stagione di mostre di “La Corte” nella ex cappella del Castello Svevo di Bari. L’associazione presieduta da Marilena Bonomo ha fra i suoi soci uno dei più autorevoli fotografi pugliesi, Carlo Garzia, che è il compagno di Alberta. Si possono capire quindi le sue perplessità in un paese piccolo come il nostro dove per molto meno la gente mormora. Ma infine hanno vinto le sollecitazioni di chi conosceva la qualità di una passione coltivata in autonomia da sempre, sin dall’ambito degli studi scientifici, e affinata in continuo confronto culturale. Rotto il ghiaccio, ecco come prima prova una selezione di fotografie scattate nell’ultimo decennio negli States, dove l’autrice ha vissuto anni di studio e dove torna assiduamente. “Cieli americani” s’intitola la mostra. Dove per “cieli” s’intendono le diverse dimensioni di spazi e condizioni di vita che da sempre esercitano fascinazione sull’uomo europeo.  Da “America” di Jean Baudrillard, Alberta Zallone ha tratto l’epigrafe del suo catalogo “Lo spazio in America è una vera e propria forma di pensiero.”
Una forma duale, nella classica dialettica fra Città e Deserto, fra East e West, fra pieni e vuoti della vita. Un gruppo di foto indugia con sguardo lento e cromatismo caldo sulla New York di sottoponti e soprelevate, i controluce della gente fra tagli di ombre lunghe e sbuffi di vapore, danze e ginnastiche sul belvedere di Manhattan e a Central Park. Sulla parete di fronte, gli spazi bruciati dal sole dei deserti californiani, piani ondulati di monti contro l’infinito, luci di tramonto sugli spiazzi dei motel e delle stazioni di servizio. Fanno da simmetrico contrappunto ai due blocchi di immagini una serie di zumate sui segni della vita urbana marginale -  graffiti, insegne al neon, homeless – e una personale immersione nelle ombre verdi e umide di fitti boschi senza identità geografica, da Washington alle Hawaii. Ma senza perdere la bussola, con trepida incisione di rapporti interni.
Due immagini isolate presidiano questa rete di relazioni tessuta con “tassonomica perizia” (Manlio Capaldi in catalogo). Una schiera di villette del North Carolina con tetti spioventi di candido disegno contro fondi di nuvole blu (inevitabile il richiamo ad Hopper); e un imperioso tratto di arco nero che taglia il cielo da un tappeto di nuvole azzurre, astrazione minimal dell’avveniristico  Gateway Arch di Saint Louis, sul Missouri. Anche un diagramma Nord – Sud, nella mappa dei misteri estatici dell’America tracciata da Alberta Zallone. Sino al 23 novembre, negli orari del Castello.

martedì 23 ottobre 2012

For president: foto arte e bottoni nelle elezioni USA



Finale di partita col fiato sospeso fra Obama e Romney per la conquista della Casa Bianca. L’esito incerto accresce la suspense per le presidenziali USA: da sempre evento mediatico di interesse mondiale, grande teatro politico capace di coinvolgere anche l’immaginazione visiva. Lo prova una rassegna fra storia ed attualità in corso a Torino, nella Fondazione Sandretto Re Rebaudengo . Fotografie a forte valenza iconica (specie per l’epopea dei Kennedy) scattate negli anni da una ventina di reporter della celebre agenzia Magnum, fra cui grandi nomi come Cornell Capa, Elliott Irwin, Eve Arnold. L’apparato pop delle pubblicità elettorali: spot, manifesti, gadget, spille, bottoni. Di bottoni ce ne sono in mostra ben 350, sin dalla campagna di Roosevelt 1952, estratti dalla vasta collezione di un italiano d’America, Luca Dal Monte. Una raccolta di spot di propaganda politica dal 1952 al 2008 è proposta in unico video di 75’ da Antoni Muntadas, noto artista spagnolo che vive a New York. Così la comunicazione di propaganda trapassa il costruzione di immaginario, con opere di diversi artisti contemporanei. E’ un bell’intrigo che mette pepe sull’iniziativa ideata da Mario Calabresi, direttore del quotidiano torinese “La Stampa” che è stato per anni inviato a New York. L’ha realizzata con il critico d’arte Francesco Bonami, direttore artistico della Fondazione Sandretto, che ha vissuto pure lui diversi anni a New York.
Il senso complessivo del progetto si coglie nel salone centrale con l’allestimento concepito dall’artista newyorchese Jonathan Horowitz per la prima elezione di Obama, 2008. Due tappeti uno blu l’altro rosso – i colori di democratici e repubblicani- ricoprono il pavimento, a parete si dispongono i ritratti di tutti i presidenti nella storia degli USA. Al soffitto da una nuvola di palloni bianchi rossi e blu contenuti in una rete, si calano in sospensione due televisori piatti opposti fra loro. Nel 2008 trasmisero il giorno delle elezioni dai due quartieri generali; il 6 novembre prossimo trasmetteranno in diretta – per una estemporanea sala stampa con ospiti - la nuova emozionante “notte bianca” che proclamerà il 45.mo presidente degli States, mentre i palloni saranno liberati dalla rete. 
La mostra però proseguirà, sino al 6 gennaio 2013. A riguardare con occhi non da tifosi le opere degli artisti chiamati in causa è possibile capire come sia cambiata anche la cultura delle conventions, in alcune svolte storiche significative. Negli anni Settanta, in clima da guerra del Vietnam e di contestazione nelle università, gli artisti sono al contempo attivisti: con le prime handycam in bianco e nero, il gruppo TVTV di San Francisco (Top Value Television) si cala fra gli elettori di Nixon e McGovern. La musica cambia con gli Ottanta di Reagan: l’irruzione dell’ex attore di Hollywood trasforma le campagne presidenziali da impegno per le idee a confezione di un prodotto da piazzare: il “Perfect Leader” di un video del californiano Max Almy girato nel 1983. Evoluzione che l’italiano Francesco Vezzoli commenta con ironia straniante nel video “Democrazy” presentato alla Biennale di Venezia 2007: sugli schermi, i candidati che si confrontano per la presidenza degli USA sono Sharon Stone e Bernard- Henry Levi. Lei attrice sexy di Hollywood, lui sofisticato filosofo francese. Ma parlano e si muovono secondo i dettami dei rispettivi strateghi della comunicazione: importanti non sono più i contenuti ma “la fotogenia, la sicurezza, la retorica”.
Vale anche per la elezione del 2012? La discesa in campo di Obama segnò un’altra svolta nelle strategie della comunicazione: irruppe il popolo di internet, la grande Rete spontanea e interpersonale. Ma non sembra che sia più così. A quella sfida del 2008 risalgono due ritratti di Obama e di McCain, dipinti a china acquerellata come antichi eroi orientali dal cinese Yan Pei Ming. Ma le fotografie di Ramak Fazel, artista iraniano che vive a Milano, mostrano gente addormentata nella Smithsonian Freer Gallery di Washington. Era il 20 gennaio del 2009: avevano cercato lì rifugio dal freddo e dalla stanchezza bivaccando in attesa del discorso di insediamento del primo presidente afroamericano della storia. Presentati ora a Torino, quei dipinti e quelle fotografie assumono sensi diversi di inquietudine e di dubbio. Gli eroi sono stanchi? Il sogno sta per svanire?

lunedì 22 ottobre 2012

Anticipazioni sul Premio Pascali 2012


E’ stato assegnato a Nathalie Djurberg  il premio Pino Pascali 2012. La notizia non è ancora ufficiale, ma la giovane artista svedese (vive a Berlino) dovrebbe essere a Polignano a Mare il 7 dicembre per ricevere il riconoscimento attribuitole dalla Fondazione Pino Pascali  ed inaugurare una sua ampia personale nei nuovi spazi del Museo. Nathalie Djurberg (nata nel 1978) è assurta a notorietà  internazionale nel giro di pochi anni per una fantasia grottesca, festosamente crudele, che attacca vizi privati e pubblici dell’umanità e della società contemporanea. Si esprime originalmente con la messinscena di pupazzi di plastilina in videoanimazioni o in spettacolari installazioni che includono elementi di natura vegetale – fiori, boschi, funghi - anch’essi “eccessivi”. A quanto pare, un paio di simili installazioni saranno realizzate per la mostra nel museo Pascali oltre alla proiezione di alcuni dei video che l’hanno resa rapidamente famosa. Sulla “Gazzetta” la irruzione della Djurberg  sulla scena europea è stata  segnalata in diverse nostre recensioni: la Biennale di Berlino 2006 (curata da Massimiliano Gioni e Maurizio Cattelan), la Biennale di Venezia 2009 nella quale le fu conferito il Leone d’Argento come miglior artista giovane, la mostra 2010 di videoarte nel Teatro Margherita di Bari dal museo di Malmoe “L’uomo senza qualità”, curata per il Comune dalla Fondazione Morra Greco. In Italia la Djurberg è stata lanciata nel 2008 con una mostra organizzata dalla Fondazione Prada a Milano, a cura di Germano Celant.  Appunto in collaborazione con la Fondazione Prada (che ha acquisito una ottantina di opere dell’artista) viene organizzata la mostra-premio a Polignano a Mare. Attualmente l’artista partecipa alla mostra “Francis Bacon e la condizione esistenziale nell’arte contemporanea” in corso a Firenze in Palazzo Strozzi, a cura del Centro Culturale “La Strozzina”.

mercoledì 17 ottobre 2012

Foto come armi contro la mafia: la storia di Letizia Battaglia



Sono passati vent’anni esatti dal quel terribile 1992, l’anno del sacrificio di Giovanni Falcone e di Cesare Borsellino. Letizia Battaglia accorse sui luoghi delle stragi, a Capaci e in via D’Amelio. Ma non volle fotografare i giudici amici, ultime vittime eccellenti della guerra di mafia che aveva insanguinato Palermo e la Sicilia tutta dai primi anni Settanta. Guerra lunga e oscura di cui questa bella ragazza siciliana dalla frangetta bionda era stata, più che testimone, combattente. Con la sua arma a tracolla, la macchinetta fotografica con la quale accorreva giorno dopo giorno per il quotidiano palermitano di sinistra  “L’Ora” sui luoghi della mattanza scatenata dai corleonesi che fece un migliaio di morti, giudici, poliziotti, carabinieri amministratori, politici insieme con i militanti delle cosche e ignari innocenti.
Ma non fu solo cronaca nera. Letizia, che a Palermo era ridiscesa nel 1974 dopo una fuga liberatoria nella Milano di cultura post Sessantotto, coniugò ben presto la pratica del reportage giornalistico (compiuta con compagni di vita e di fotografia, prima Santi Caleca e poi - per quasi vent’anni - Franco Zecchin) con l’indagine sociale e antropologica: la vita nei quartieri poveri e negli interni degradati di Palermo con attenzione particolare alle madri alle ragazze e ai bambini, le feste religiose, le feste gattopardesche dei nobili. Si mosse - con maggiore consapevolezza dagli Ottanta - nel solco della cultura del realismo che in Sicilia aveva una grande tradizione (da Verga a Sciascia, da Visconti a Scianna). Ma nutrendosi di stimolanti relazioni internazionali come quella con Joseph Koudelka, il fotografo ceko celebre in quegli anni per le foto dell’invasione russa di Praga e per la ricerca sugli zingari.
Così la professione si fece passione. E’ questo il primo contesto di lettura per le 60 grandi fotografie, rigorosamente in bianco e nero, dai forti inchiostri quasi caravaggeschi, impastate di rabbia e di pietà, che sono esposte per la grande personale a Bari nella sala Murat. Ne emergono brandelli sanguinanti di storia italiana, con i suoi nuovi martiri – i famosi come Piersanti Mattarella, gli sconosciuti come la prostituta Nerina. Tralucono irrisolte condizioni e contraddizioni della società meridionale, vedi il tatuaggio del Cristo di spine sulla spalla di un mafioso ucciso. Si stagliano icone della condizione umana, il dolore delle donne, lo smarrimento dei ragazzi. Fa da emblema finale il volto tagliato fra luce ed ombra di Rosaria Schifani, la giovane vedova di una guardia del corpo di Falcone, che in chiesa invitò piangendo gli assassini a pentirsi. Selezionate da un archivio di oltre 600mila scatti,  presentate in mostre libri e premi in mezzo mondo, queste immagini costituiscono in sostanza il Codice al quale Letizia Battaglia affida  dal 1999 il suo messaggio di “Passione Giustizia Libertà” .
Quasi un mantra, che l’autrice continua a declamare con inesausta energia ora che ha 77 anni, mentre dice di volersi dedicare alle sue piante di prezzemolo, alle tre figlie (una, Shoba, fa la fotografa) e alle nipoti. Passione di giustizia e di libertà che la portarono tra il 1986 e il 1993 all’impegno politico: consigliere comunale con i Verdi, assessore comunale con la prima “anomala” giunta di Leoluca Orlando, consigliere regionale per la Rete. E soprattutto, smaltendo le delusioni della politica (ma ora ha ritrovato a Palermo il “suo” sindaco Orlando), con l’impegno sociale nella cultura. Fondando circoli antimafia, pubblicazioni progressiste e femministe, una casa editrice. Battendosi per l’ambiente, per i malati di mente, per i carcerati. Realizzando cortometraggi. Il più recente, 2007, s’intitola “La fine della storia”. E’ ispirato ad una poesia di Pasolini: “Ma io con il cuore cosciente/ di chi soltanto nella storia ha vita/ potrò mai più con pura passione operare/ se so che la nostra storia è finita?”. Ma è davvero così? Letizia Battaglia ha ancora cose da fare e da dirci. Sulla mafia e non solo, di ieri e di oggi. Ne sapremo di più dall’incontro con lei, tornando “sulle ferite dei suoi sogni” (Michele Perriera, 2006).

PIETRO MARINO

* S’inaugura domani giovedì 18 ottobre a Bari nella Sala Murat (piazza del Ferrarese) la mostra di fotografie “Racconti di Mafia” di Letizia Battaglia, con un incontro (ore 17) con l’autrice moderato da Pietro Marino. 
La mostra – che si svolge nell’ambito del Festival “I Luoghi della Legalità” – resterà aperta sino al 30 ottobre. 
Orari: 10-13, 18.30- 21, lunedì chiuso. 
Ingresso libero.