mercoledì 30 gennaio 2013

Nel cinema "on the road" il sogno e la crisi dell'America

"EASY RIDER" di Dennis Hopper, 1969


L’America negli ultimi lustri è andata perdendo fascino. Una sequenza di guerre non vinte dal Vietnam all’Iraq all’Afghanistan, e di crisi epocali dalla Grande Depressione del 1929 allo spettro del fiscal cliff di oggi, hanno fatto sbiadire se non svanire l’american dream: il sogno che ha conquistato generazioni, dal New Deal di Roosevelt alla Nuova Frontiera di John Kennedy allo “Yes, we can” di Obama, primo presidente negro degli Stati Uniti. Dopo la caduta del Muro di Berlino sembrò segnare il trionfo del modello occidentale, “la fine della storia”, e invece ha subito un brusco risveglio dallo choc delle Twin Towers. Eppure – ha scritto Vito Amoruso – “la storia americana è sempre un nuovo cominciamento”. Ed è stato il cinema americano, Hollywood, ad “esorcizzare la crisi di idee e di valori con una ostinata rivisitazione del passato recente e remoto”. Ha rielaborato “i temi moderni dello sradicamento, dell’uomo nella sua quotidiana erranza nel caos, della perdita di orientamento”. Ha fatto coincidere il Cinema come linguaggio delle immagini in movimento e forma simbolica della modernità con la nozione del Viaggio (reale e metaforico, nello spazio-tempo e nella coscienza): “l’unico luogo in cui tornare per una cultura basata sull’elogio dello sradicamento”. Così “il cinema di viaggio e il viaggio del cinema assumono il nitore di un canone americano”, fra archetipi e stereotipi.
Sembra questa, per sunti e citazioni, la struttura portante del nuovo libro di Oscar Iarussi Visioni americane – Il cinema “on the road” da John Ford a Spike Lee  appena edito da Adda (132 pagg,…euro). Si compone di due saggi, “Viaggio nel cinema americano” e “L’evidenza americana – Il cinema e l’11 settembre” uniti dall’apertura di obiettivo a tutto campo. Un metodo di indagine che oltrepassa la cinefilìa dello “specifico filmico” per tentare una ermeneutica di “sguardo sul mondo”: approccio collaudato con successo nel 2011 con il libro felliniano “C’era una volta il futuro - L’Italia della Dolce Vita” e col progetto “Frontiere”, la rassegna da lui ideata e diretta a Bari.
A dire cinema “on the road” la memoria corre subito al libro cult di Jack Kerouac (1957) che è stata la bibbia della beat generation. E certo a quel “ribellismo anarcoide”, alla “ricerca confusa ma tenace di un mondo altro, evanescente” si riconduce l’esperienza del road movie anni Settanta, fra l’Easy Rider 1969 di Dennis Hopper e Lo Spaventapasseri 1973 di Jerry Schatzberg, “metafora del vano fuggire”. Assume il senso largo di “viaggio nella coscienza espansa grazie alla droga, all’alcol, talora all’eros” come si vede in tanti capolavori del periodo, da Taxi Driver 1976 di Scorsese agli psicodrammi dei “reduci dal Vietnam” (Il Cacciatore di Cimino 1978, Apocalypse Now di Coppola 1979).  
Ma – avverte l’autore - il “cinema della crisi” ha partenze lontane. Dagli hobos, i “vagabondi della notte” di Jack London rivelati sullo schermo da Charlot, l’omino migrante su strade dell’addio “che non si sa dove conducano, un altrove”. Su questa cultura dell’addio come ripartenza si innesta la tematica del western come “cinema americano per eccellenza”. Non tanto come epopea della “conquista del West” (De Mille 1936) con i suoi sviluppi sino al crepuscolo fra critica e nostalgia (Peckinpah), ma come proiezione verso una Terra Promessa, il miraggio della frontiera e la ferita dolorosa del confine, la borderline. Da Furore, il film-manifesto di John Ford tratto dal romanzo di Steinbeck (1940),  la ricognizione si inoltra nel campo di diramazioni anche sorprendenti dal western come “metagenere”: i film di corsa e di fuga, di guerra e di fantascienza, di denuncia sociale e di identità eccetera. Con sbocchi di ultima fuga – diversamente drammatici - verso le “terre selvagge” (Into the Wild, Sean Penn 2007) e verso la frontiera metropolitana (Gangs of New York, Scorsese 2002). Sino allo smarrimento finale del marines nativo - americano reduce da Iwo Jima nel film di Clint Eastwood Flags of our Fathers (2006).
Su questo vanishing point  la prima inchiesta del libro, di respiro enciclopedico (la filmografia finale conta 190 titoli), si connette al secondo saggio che muove dall’attacco alle Torri Gemelle. E’ introdotto da una questione cruciale: il rapporto tra guerra e immaginario collettivo, la violenza come “spettacolo” mediatico, l’estetizzazione del dolore. Il cinema risponde ponendosi  come “esperienza del vuoto” (di cui è metafora Ground Zero) contrapposta al “troppo pieno” dei reality show, della realtà come videogame, e col “filmare da lontano” contro la distrazione- distruzione dello sguardo. Questa scelta etica prima che estetica era già presente in film dedicati all’11 settembre, come Fahrenheit 9/11 di Michael Moore e soprattutto nel toccante “corto” del messicano Inarritu nell’antologia cinematografica 11’09”01, col suo schermo spento (il “non visto” della tragedia secondo Derrida) e solo le voci di quel giorno. Ma la metafora di Iarussi stringe su La 25. Ora di Spike Lee, il film 2002 che segue l’ultima notte di libertà del giovane Monty prima di finire in carcere, un on the road urbano che parte proprio dal cratere delle Twins. Con questa “suite dell’addio” si  chiude il cerchio del labirintico viaggio nella mitologia americana. E’ suggellato dal sorriso ineffabile nel vuoto di Robert De Niro nella fumeria d’oppio inC’era una volta in America (1984) di Sergio Leone: “il nirvana dell’Occidente”.

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