mercoledì 28 novembre 2012

Le ore blu di Jan Fabre a Barletta


L’Arte è una Medusa: è bella, è mitica, affascina ma sorprende ed urtica. Ce ne avverte Jan Fabre, il celebrato maestro fiammingo, col titolo della sua retrospettiva che si inaugura oggi a Barletta in Palazzo della Marra, aperto  per la prima volta ad  un artista che non sia… del tempo di De Nittis (ma figuriamoci: stiamo parlando del primo autore contemporaneo chiamato a violare, nel 2008, il tempio del Louvre). La scritta “Art is a Medusa” appariva in un disegno del 1987 nella quale il fantasma nero della medusa galleggia dentro un fondale di intenso blu tratteggiato a punta di bic. Ritroviamo il quadretto accanto ad un altro simmetrico pensamento visivo - un paguro con la scritta “Art is my Home” -  nella stanza finale della mostra. Lì si conclude un percorso scandito per nitide stanze con misura selettiva, di opere eseguite  nel tempo lungo (1987-1992) del ciclo “L’Ora Blu”:  “un blu di profondità oscure nelle quali si può indovinare cosa cova di nascosto, ma senza alcuna certezza”(Bart Verschaffel). Sogni e incubi evocati con tecnica di raffinata semplicità,  matrici surreal-simboliste di una immaginazione che si sarebbe poi sfrenata in invenzioni di provocante visionarietà.
Ne scrissi anche in occasione della mostra che Fabre tenne nel 2008 a Polignano ricevendo il premio Pino Pascali, dove apparivano tre grandi “disegni” di quel ciclo. Di diverso soggetto sono le carte monumentali esibite a Barletta. Con virtuose soluzioni di découpagee sagomazioni “in negativo” dal fondo bianco della carta, lampeggiano segnaletiche di Spade e Pugnali accanto a Croci con girandole di sole e falci di luna. Nei cicli in piccolo formato folleggiano meraviglianti metamorfosi, elmi-pesce, animali-arma.
S’intreccia con la saga del Blu onirico un altro leitmotiv archetipico, il Castello. E’ annunciato in inizio di percorso da quattro disegnini dei primi 2000:  l’autore appunta schizzi di castelli nordici come fogli di diario e li bagna con lacrime versate per i più diversi motivi, amore o cipolla. Il tema si dispiega col “Progetto Tivoli”. Nel 1990  Fabre fece rivestire interamente con pannelli di stoffa trattati in blu da 130mila penne a sfera, un intero castelletto nel “parco Tivoli” a Mechelen-Malines, presso Anversa (quasi un controcanto beffardo agli involucri di Christo). Dentro una suggestiva stanza del museo rivestita di nero l’edificio si staglia in videoproiezione con la sua tintura da favola, fra scorrimenti di nuvole e brividi di acque ottenuti con tempi  compressi di ripresa. Inoltre particolari architettonici e di arredo del castello, ritagliati in stilizzati rilievi blu su pannelli con fondo argentato, danno vita ad una  serie (molto rara) di multipli ironicamente decorativi. Un’altra sala nera accoglie lo storico video “Questa pazzia è fantastica!” girato in bianconero e blu sul fiume Schelda nel 1988: l’artista affida alle acque un messaggio sul limite fra vita e morte.
Il Blu, il Castello, l’Acqua. Forse sta in questo trittico il legame che Fabre intrattiene con la Puglia. Sin dal 2006, partecipando nel castello di Monte Sant’Angelo ad Intramoenia ExtrArt, la rassegna itinerante organizzata dalla associazione Eclettica di Giusy Caroppo, lanciata ora nell’animoso progetto europeo “Watershed” del quale la mostra di oggi è tappa significativa e prestigiosa. Dentro questo intreccio si colloca un altro progetto che viene presentato nella stessa sala finale dove appare la Medusa dell’Arte, quasi a coniugare il già fatto col futuro da fare. L’artista sogna di rivestire di blu, come fece a Mechelen, un castello sul mare di Puglia. Avrebbe scelto il castello di Monopoli, che s’innalza compatto su un bel porticciolo, come confermano in mostra alcune foto “trattate” in bianconero e un videorendering. Ma non è detto. Comunque vuole annunciarlo lui in persona stasera, per uncoupe de teatre che siamo tenuti a rispettare. Perché  questo castello al momento è ancora un sogno: il progetto c’è, ben costruito, però bisogna trovare disponibilità e soldi, e parecchi. Ma Fabre avrà accanto stasera Nichi Vendola e chissà, fra sognatori ci s’intende.

*S’inaugura stasera alle 19 a Barletta, nella Pinacoteca Giuseppe De Nittis (Palazzo della Marra, via Cialdini 74) la mostra di opere di Jan Fabre “Art is a Medusa”. Sarà presente l’artista, intervengono il presidente della Regione Puglia Nichi Vendola, l’assessore regionale Silvia Godelli, il presidente della Provincia BAT Francesco Ventola, il commissario prefettizio al Comune di Barletta Anna Maria Manzone. Seguirà un “Gallery Talk” con Giusy Caroppo curatrice della mostra e Barbara De Coninck direttrice scientifica, Alberto Fiz direttore del MARCA di Catanzaro, Rosalba Branà direttrice del Museo Pascali di Polignano, Giampiero Borgia direttore della Compagnia delle Formiche, gruppo pugliese che presenta al pianoterra della Pinacoteca un video sulla sua rielaborazione, eseguita ad Anversa, del lavoro teatrale di Jan Fabre “L’Histoire des Lames”. La mostra sarà visitabile con ingresso libero sino al 28 febbraio 2013. Orari: 9-19, lunedì chiuso. Info: tel. 0883538373.  


giovedì 22 novembre 2012

Chiara Fumai alla guerra dell'arte



La “barese” Chiara Fumai (è nata a Roma nel 1978, ma a Bari vivono i suoi genitori, e da qui partì per Milano da ragazza) è tra i cinque finalisti del premio Furla, il più prestigioso concorso italiano per giovani artisti, di cui è padrino quest’anno Jimmie Durham. Il vincitore sarà proclamato in gennaio, ma già l’ingresso in selezione è importante. In palio c’è la realizzazione di un’opera che sarà presentata a Venezia nella Fondazione Querini Stampalia in occasione della Biennale 2013 e poi passerà in comodato al MAMBO di Bologna, mentre all’autore sarà offerta una residenza presso il Wiels Contemporary Art Center di Bruxelles. Comunque vada, l’artista è lanciatissima dopo l’apparizione di quest’anno sulla maggiore ribalta internazionale di arte contemporanea, Documenta 13 a Kassel, dove era stata invitata direttamente dalla direttrice Carolyn Christov- Bakargiev. Il 16 settembre scorso la grande rassegna tedesca ha festeggiato la chiusura con una misteriosa performance di Chiara (“Shut up; Actually Talk”), la quale era già apparsa sui tetti del Fridericianum per un’altra performance nei giorni di preview, sotto gli occhi di giornalisti e critici di tutto il mondo. Ancor più radicale è il progetto presentato al Furla: una “dichiarazione di guerra” in chiave anarco-femminista, promette l’artista (in questi giorni è a Bari), con doppia location tra Bologna e Praga.
Ancora una personale a Praga, una performance a Parigi (Maison Rouge) e una mostra a  Mosca sono nella sua agenda. Si dilata così il suo mondo di concettosa visionarietà che mescola spiritismo e politica, occultismo e femminismo, lampi di storia e relazioni surreali, apparizioni e finzioni intriganti. E Bari ha avuto una sua parte nella crescita dell’artista nel giro di pochi anni. Merito dei promotori, curatori e commentatori di iniziative preveggenti che l’hanno vista protagonista in città:  la performance da “donna barbuta”nelle vetrine di Mincuzzi in via Sparano per “Gemine Muse” nel 2010, l’installazione della medium Eusapia Palladino nel teatro Margherita  per la seconda edizione del premio LUM 2011, la personale (“Valerie Solanas non è nata ieri”) nella galleria Muratcentoventidue nello stesso anno. Segno che oggi, se si fugge dal Sud, almeno non si sfugge. Ma l’attenzione dei pochi non basta. Bisogna alimentare le occasioni, irrobustire le strutture. E qui, tuttora, casca l’asino.

lunedì 19 novembre 2012

Alighiero Boetti fra Ordine e Disordine: il catalogo degli anni Settanta



Le Mappe del mondo tessute come arazzi mentali nei laboratori dell’Afghanistan. I ricami di frasi incasellate con Ordine-Disordine di lettere dell’alfabeto in griglie quadrate. I fogli con lettere e/ o virgole disseminate  su fondali tratteggiati in blu con penna biro per “Mettere al mondo il mondo”. Sono alcune delle serie che hanno fatto di Alighiero Boetti (1940-1994)  l’artista italiano del secondo Novecento più apprezzato a livello internazionale con Fontana e Manzoni, ma con maggiore visibilità mediatica e gradimento di pubblico. Cicli tutti avviati negli anni Settanta: quando Boetti, spostandosi nel 1972 dalla nativa Torino a Roma, abbandona l’area dell’Arte Povera  nella quale già stentava ad incasellarsi con le installazioni oggettuali, si sbarazza del “rigore eccessivo” (parole sue) del bianco e nero fotografico e comincia “ad usare i colori, a lavorare manualmente e produrre di più”. Mette a fuoco un originale e raffinato concettualismo riscaldato di metodi ed ironia pop col quale trasgredisce gli schemi correnti nel suo tempo.
Per questo assume particolare interesse la pubblicazione per le edizioni Electa del monumentale secondo tomo del Catalogo generale  delle sue opere, a cura dell’Archivio Alighiero Boetti con la direzione scientifica di Jean-Christophe Ammann. Riguarda appunto gli anni dal 1972 al 1979, con la schedatura di ben 846 pezzi (432 pagg., 1200 ill., 200 euro). Esce, per significativa coincidenza, a ridosso della grande mostra antologica di Boetti che ha viaggiato nel 2011-12 dal Reina Sofia di Madrid alla Tate Modern di Londra al MoMa di New York e dell’omaggio resogli da Documenta Kassel. A conferma – come segnala Ammann – che la cultura postmoderna vede nell’autore italiano uno dei (pochi) protagonisti in positivo di quella “energia centrifuga” che si è sprigionata nell’arte dopo l’esaurimento, proprio negli anni Settanta, delle ultime avanguardie del Novecento.
Da allora è in atto una dissoluzione degli stili e la disintegrazione delle tendenze (lo ha riconosciuto Germano Celant nella sua rivisitazione-celebrazione dell’Arte Povera col ciclo di mostre che ha toccato nel 2011 anche Bari). Con Boetti - incalza Ammann - si apre a 360 gradi “l’orizzonte delle possibilità”, grazie all’invenzione di un sistema linguistico flessibile, di una strategia polivalente. Colpisce nell’immediato la riabilitazione dell’artigianato e della manualità, il rilancio dell’ornamento e della superficie, anche col coinvolgimento dell’Oriente nel gioco occidentale. Ma il gioco della seduzione è condotto con seriale scardinamento di  regole e tecniche, sostengono con diverse argomentazioni Giorgio Verzotti, Franco La Cecla, Laura Cherubini, Achille Bonito Oliva “interrogati” da Ammann, e Giulio Paolini in una testimonianza.
E’ un sistema concettuale messo in luce da Annemarie Sauzeau, che dell’artista fu compagna nei primi venti anni. Lo sdoppiamento di sé (Alighiero & Boetti) iniziato nei Sessanta si moltiplica nei Settanta con gli “ononimi”: gli amici e assistenti chiamati a tratteggiare i fondi con la penna biro o addirittura a disegnare gli Aerei sugli stessi fondi, a colorare le Faccine (1977) , a “disegnare” i vari codici grafici e le scritture “con mano mancina”. Sono “ononime” di Alighiero le stesse ricamatrici afgane che dal 1971 eseguono le Mappe e gli Ordini-Disordini.  Moltiplicazioni e virtuosismi metrici presiedono alle operazioni con cui l’artista fa “nominare il mondo” con procedure di ripetizione differente: le frasi ricamate sotto vari titoli, i nomi trapuntati dei Mille fiumi più lunghi del mondo(1976-82), i francobolli sulle buste dei Lavori postali (1972) .
Il concetto di “ripetizione e differenza” rinvia ovviamente a Deleuze. Ma anche  - sostiene la Sauzeau - ai testi di scrittura combinatoria praticata da Perec, Queneau, il collettivo Oulipo, nella Parigi in cui Boetti aveva sostato da giovane. Si arricchisce così l’esplorazione delbackstage concettuale dell’artista, che proseguirà negli anni prossimi con altri due tomi del Catalogo. Ma aldilà dell’interesse filologico e culturale del libro, irresistibile è il fascino ambiguo, la magia ritmica che si sprigiona con marcata identità “italiana” dalle immagini di Boetti. Un gioco ermetico annunciato da un lavoro del 1969 di fronte al quale è fotografato da Paolo Mussat-Sartor: “Niente da vedere, niente da nascondere”.

sabato 17 novembre 2012

Gino Marotta, un Eden di plastica


Gino Marotta è morto a 77 anni mentre è ancora in corso, sino a gennaio, una sua personale con opere recenti nella Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma, la città in cui era sceso da giovane dalla nativa Campobasso. Era felice di poter disporre le sue sagome colorate in metacrilato trasparente di palme, liane, dromedari, fenicotteri in dialogo con le opere dell’Ottocento-Novecento, con le Ninfeee di Monet o con quelle di Pistoletto e di Kounellis, suoi compagni d’avventura nel fervore creativo della capitale negli anni Sessanta-Settanta. Con le sue invenzioni di “Natura Artificiale” reinventata nella materia nuova, la plastica, era stato uno degli artisti di punta della Scuola di Piazza del Popolo raccolta attorno alla galleria “La Tartaruga”: con Ceroli, Kounellis appunto, e Pascali. Aveva partecipato da protagonista a tutte le mostre (come “Lo Spazio dell’Immagine” a Foligno, la mostra 1967 dove Pino Pascali espose i suoi 32mq.di Mare circa) che hanno segnato la storia  del “Pop all’italiana” . E già nel 1969 con Ceroli Kounellis e Pascali era uno dei quattro italiens  invitati nel Museo di Arti Decorative per svolgere il tema della finzione di Natura con i suoi teatrini di plastica luminescente..
Proprio la dimensione scenografica, la dimensione illusionistica del teatro gli era congeniale: lo capì Carmelo Bene, che a lui affidò le scenografie di molte dei suoi più importanti lavori, da “Nostra Signora dei Turchi”(1971) a”Homelette for Amlet”1988 (per la quale vinse il premio Ubu). Di partecipazioni prestigiose a mostre in Italia e all’estero (“Vitalità del Negativo” con Achille Bonito Oliva a Roma, Dusseldorf 1971, Biennale di Venezia 1984 con Calvesi direttore per “Arte e Ambiente”, mostra al MACRO 2009) e di titoli accademici (diresse fra l’altro l’Accademia di Belle Arti dell’Aquila) era  folto il suo curriculum. Tuttavia, dopo il break operato  dall’Arte Povera era rimasto, se non fuori gioco, piuttosto defilato dalle avventure del cambiamento, quasi consegnato alla rielaborazione virtuosa della maniera che lo aveva portato alla ribalta. Era stata un’invenzione felice, certo, la sua plastica cordiale nella quale sogni di bellezza esotica si fondevano con la lezione metafisica di De Chirico in una sorta di design della fantasia, tra Boschi Eden Paradisi. Sino alla recentissima Foresta di Menta, la selva di cavi verdi come liane in esposizione alla GNAM. E’ questo l’ultimo sbocco felicemente ludico di un percorso iniziato nei Cinquanta con giovanili strutture materiche  di Piombi e Bandoni di latta, nutrite della lezione congiunta di Burri-Jasper Johns. Su questo fecondo connubio o scambio la rilettura di quel tempo fervido della nuova arte italiana non potrà ignorare il contributo di Gino Marotta.  

giovedì 15 novembre 2012

I "paesaggi distanti" di Kristina Kvalvik, norvegese a Bari



E’ nata in Norvegia, ha studiato in Svezia, vive a Copenaghen. Si propone come sintesi ideale di cultura scandinava il percorso di Kristina Kvalvik, classe 1980. E un filo di quella  visionarietà fredda che scambia – da Strindberg a Bergman - solitudini del paesaggio baltico con smarrimenti interiori, sembra legare anche la selezione di film-video presentata a Bari dalla giovane artista per la sua prima personale in Italia. Un po’ come notammo per la rassegna di videoarte scandinava  “L’uomo senza qualità” portata l’anno scorso nel Teatro Margherita dal Museo di Malmoe. 
Proprio nel Museo di Malmoe  la Kvalvik allestì nel 2008 la videoinstallazione su due canali “Voices of the Unseen”, che a Bari è presentata – per limiti di spazio – su piccoli schermi piatti. Si vedono due strade deserte di anonima città nordica, immerse nel semibuio di una ora incerta, smangiate da fumi di nebbia. Una voce femminile fuori campo racconta in prima persona di un suo incubo all’interno di una casa, dalla quale esce e rientra con la sensazione di essere seguita da qualcuno, fra paura del “non visto” e ricerca di rassicurazione domestica. Il meccanismo di ripresa e racconto in soggettiva si conferma in “Notes from a stranger”, installazione su tre pareti per la Biennale di Goteborg 2009, anch’essa offerta qui in allineamento di monitor. Una mano invisibile scrive un diario che si svolge mentre l’autrice si inoltra “come uno straniero”,  fra  interni - esterni di doppi ambienti in abbandono ai limiti della città, quasi “dopo la catastrofe”. Invece in “Night Time Dangerer” (2010) la scrittura scorre in animazione e scompare come “traccia fluida” sul pavimento di stanze riprese in fissità fotografica, svuotate di mobili e presenze: “Ho abbracciato la morte, e sono sprofondata nel buio”.
Il paesaggio naturale diviene protagonista nell’ultimo lavoro, praticamente inedito (2012), “Distant Landascape”. Una vecchia cinepresa riprende, con inquadrature tremolanti e distanziate, nevi, acque, brughiere, ombre di monti dell’Islanda, su pellicola in 8 mm. sgranata e sbiadita. Un testo battuto su macchina da scrivere ribadisce l’andirivieni onirico fra la “terra desolata” e un ansioso “paesaggio dell’anima”. Approccio linguistico in modalità volutamente precarie ed obsolete (Rosalind Krauss parlerebbe di “reinvenzione del medium”) sottolineate dalla proiezione su un riesumato schermo portatile. Conferma, sotto il raggelato minimalismo delle immagini, la complessità del doppio movimento, o doppio sguardo, col quale l’artista-scrittrice va muovendo inquietamente alla “ricerca dell’io” (“The Wonder of the I”, è titolo della mostra e di un libretto con i suoi testi). 

Nella galleria Murat 122, sino al 5 dicembre, dal martedì al sabato 17-20. Info: tel.3938704029, 3925985840,
www.muratcentoventidue

venerdì 2 novembre 2012

Un colletto sulla pelle: grazia e crudeltà di Silvia Giambrone



Crudeli con grazia. Così definiva le sue opere Silvia Giambrone, 31enne artista siciliana-romana in grande ascesa, rispondendo di getto ad un magazine femminile. La risposta può ben introdurre all’impegnativo corpus di lavori nuovi presentati in Bari vecchia nei suggestivi ambienti di Palazzo Verrone. La chiave sta nel video proiettato a piano terra, dedotto dalla performance “Teatro Anatomico” eseguita in luglio a Roma: l’artista si fa cucire attorno al collo un colletto di pizzo bianco da educanda, con ago e filo manovrati da un chirurgo in veci di sarto. I punti sono poco cruenti, comunque lei si sottopone con concentrata severità al rito doloroso. Tenere la distanza dal dolore è necessario perché – dice sempre Silvia, probabilmente  ricordando Baudrillard – “il dolore più della pornografia è il luogo dell’osceno”. Deve cioè stare “fuori dalla scena”. Ma la bellezza dell’arte si nutre di dolore (lo diceva già Dostoievski): fa un corpo solo, come il pizzo gentile cucito sulla pelle. E l’esercizio femminile del ricamo che produce  bellezza “inutile” dichiara come la donna abbia accettato come “destino” genetico il ruolo nel quale è stata relegata dalla società maschile specie nel Sud (“sono cresciuta ad Agrigento dove i pizzi di madri e nonne si sprecavano”). Di qui l’ossimoro, la contraddizione che detta il titolo della mostra, “L’impero libero degli schiavi” su cui ragionano acutamente nell’elegante cataloghino Vittorio Parisi e Fabrizio Pizzuto. E che l’artista riassume con un lavoro all’uncinetto che richiama la struttura del DNA, con titolo a doppio senso, “Eroina”.
Su questa trama concettuale si possono leggere le intense variazioni che si dispiegano con “grazia crudele” e duttilità di soluzioni estetiche al piano superiore. La costellazione di gessi bianchi con calchi di pizzi e merletti come reperti fossili del “Made in Italy”. Le fotografie vintage di prime comunioni con i volti femminili coperti da trine nere, come dei burqa alla siciliana. “La Dote” volante di ingranditi retini di ferro e macramè in cornice, quasi celle di clausura. I ricami impressi come sudari neri su stampe fotografiche, o scavati dalle morsure degli acidi su lastre di zinco. E una barra magnetica che attrae una selva pungente di spilli si para come preziosa, lucente struttura astratta.  Da DoppelGaenger (via Verrone 8) sino al 9 dicembre, dal lunedì al venerdì 17-20.