venerdì 2 novembre 2012

Un colletto sulla pelle: grazia e crudeltà di Silvia Giambrone



Crudeli con grazia. Così definiva le sue opere Silvia Giambrone, 31enne artista siciliana-romana in grande ascesa, rispondendo di getto ad un magazine femminile. La risposta può ben introdurre all’impegnativo corpus di lavori nuovi presentati in Bari vecchia nei suggestivi ambienti di Palazzo Verrone. La chiave sta nel video proiettato a piano terra, dedotto dalla performance “Teatro Anatomico” eseguita in luglio a Roma: l’artista si fa cucire attorno al collo un colletto di pizzo bianco da educanda, con ago e filo manovrati da un chirurgo in veci di sarto. I punti sono poco cruenti, comunque lei si sottopone con concentrata severità al rito doloroso. Tenere la distanza dal dolore è necessario perché – dice sempre Silvia, probabilmente  ricordando Baudrillard – “il dolore più della pornografia è il luogo dell’osceno”. Deve cioè stare “fuori dalla scena”. Ma la bellezza dell’arte si nutre di dolore (lo diceva già Dostoievski): fa un corpo solo, come il pizzo gentile cucito sulla pelle. E l’esercizio femminile del ricamo che produce  bellezza “inutile” dichiara come la donna abbia accettato come “destino” genetico il ruolo nel quale è stata relegata dalla società maschile specie nel Sud (“sono cresciuta ad Agrigento dove i pizzi di madri e nonne si sprecavano”). Di qui l’ossimoro, la contraddizione che detta il titolo della mostra, “L’impero libero degli schiavi” su cui ragionano acutamente nell’elegante cataloghino Vittorio Parisi e Fabrizio Pizzuto. E che l’artista riassume con un lavoro all’uncinetto che richiama la struttura del DNA, con titolo a doppio senso, “Eroina”.
Su questa trama concettuale si possono leggere le intense variazioni che si dispiegano con “grazia crudele” e duttilità di soluzioni estetiche al piano superiore. La costellazione di gessi bianchi con calchi di pizzi e merletti come reperti fossili del “Made in Italy”. Le fotografie vintage di prime comunioni con i volti femminili coperti da trine nere, come dei burqa alla siciliana. “La Dote” volante di ingranditi retini di ferro e macramè in cornice, quasi celle di clausura. I ricami impressi come sudari neri su stampe fotografiche, o scavati dalle morsure degli acidi su lastre di zinco. E una barra magnetica che attrae una selva pungente di spilli si para come preziosa, lucente struttura astratta.  Da DoppelGaenger (via Verrone 8) sino al 9 dicembre, dal lunedì al venerdì 17-20.

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