lunedì 19 novembre 2012

Alighiero Boetti fra Ordine e Disordine: il catalogo degli anni Settanta



Le Mappe del mondo tessute come arazzi mentali nei laboratori dell’Afghanistan. I ricami di frasi incasellate con Ordine-Disordine di lettere dell’alfabeto in griglie quadrate. I fogli con lettere e/ o virgole disseminate  su fondali tratteggiati in blu con penna biro per “Mettere al mondo il mondo”. Sono alcune delle serie che hanno fatto di Alighiero Boetti (1940-1994)  l’artista italiano del secondo Novecento più apprezzato a livello internazionale con Fontana e Manzoni, ma con maggiore visibilità mediatica e gradimento di pubblico. Cicli tutti avviati negli anni Settanta: quando Boetti, spostandosi nel 1972 dalla nativa Torino a Roma, abbandona l’area dell’Arte Povera  nella quale già stentava ad incasellarsi con le installazioni oggettuali, si sbarazza del “rigore eccessivo” (parole sue) del bianco e nero fotografico e comincia “ad usare i colori, a lavorare manualmente e produrre di più”. Mette a fuoco un originale e raffinato concettualismo riscaldato di metodi ed ironia pop col quale trasgredisce gli schemi correnti nel suo tempo.
Per questo assume particolare interesse la pubblicazione per le edizioni Electa del monumentale secondo tomo del Catalogo generale  delle sue opere, a cura dell’Archivio Alighiero Boetti con la direzione scientifica di Jean-Christophe Ammann. Riguarda appunto gli anni dal 1972 al 1979, con la schedatura di ben 846 pezzi (432 pagg., 1200 ill., 200 euro). Esce, per significativa coincidenza, a ridosso della grande mostra antologica di Boetti che ha viaggiato nel 2011-12 dal Reina Sofia di Madrid alla Tate Modern di Londra al MoMa di New York e dell’omaggio resogli da Documenta Kassel. A conferma – come segnala Ammann – che la cultura postmoderna vede nell’autore italiano uno dei (pochi) protagonisti in positivo di quella “energia centrifuga” che si è sprigionata nell’arte dopo l’esaurimento, proprio negli anni Settanta, delle ultime avanguardie del Novecento.
Da allora è in atto una dissoluzione degli stili e la disintegrazione delle tendenze (lo ha riconosciuto Germano Celant nella sua rivisitazione-celebrazione dell’Arte Povera col ciclo di mostre che ha toccato nel 2011 anche Bari). Con Boetti - incalza Ammann - si apre a 360 gradi “l’orizzonte delle possibilità”, grazie all’invenzione di un sistema linguistico flessibile, di una strategia polivalente. Colpisce nell’immediato la riabilitazione dell’artigianato e della manualità, il rilancio dell’ornamento e della superficie, anche col coinvolgimento dell’Oriente nel gioco occidentale. Ma il gioco della seduzione è condotto con seriale scardinamento di  regole e tecniche, sostengono con diverse argomentazioni Giorgio Verzotti, Franco La Cecla, Laura Cherubini, Achille Bonito Oliva “interrogati” da Ammann, e Giulio Paolini in una testimonianza.
E’ un sistema concettuale messo in luce da Annemarie Sauzeau, che dell’artista fu compagna nei primi venti anni. Lo sdoppiamento di sé (Alighiero & Boetti) iniziato nei Sessanta si moltiplica nei Settanta con gli “ononimi”: gli amici e assistenti chiamati a tratteggiare i fondi con la penna biro o addirittura a disegnare gli Aerei sugli stessi fondi, a colorare le Faccine (1977) , a “disegnare” i vari codici grafici e le scritture “con mano mancina”. Sono “ononime” di Alighiero le stesse ricamatrici afgane che dal 1971 eseguono le Mappe e gli Ordini-Disordini.  Moltiplicazioni e virtuosismi metrici presiedono alle operazioni con cui l’artista fa “nominare il mondo” con procedure di ripetizione differente: le frasi ricamate sotto vari titoli, i nomi trapuntati dei Mille fiumi più lunghi del mondo(1976-82), i francobolli sulle buste dei Lavori postali (1972) .
Il concetto di “ripetizione e differenza” rinvia ovviamente a Deleuze. Ma anche  - sostiene la Sauzeau - ai testi di scrittura combinatoria praticata da Perec, Queneau, il collettivo Oulipo, nella Parigi in cui Boetti aveva sostato da giovane. Si arricchisce così l’esplorazione delbackstage concettuale dell’artista, che proseguirà negli anni prossimi con altri due tomi del Catalogo. Ma aldilà dell’interesse filologico e culturale del libro, irresistibile è il fascino ambiguo, la magia ritmica che si sprigiona con marcata identità “italiana” dalle immagini di Boetti. Un gioco ermetico annunciato da un lavoro del 1969 di fronte al quale è fotografato da Paolo Mussat-Sartor: “Niente da vedere, niente da nascondere”.

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