sabato 29 dicembre 2012

Son venuto da Parigi fin qui...(per una mostra a Bari). E poi Fata Morgana in video a Terlizzi


Per la prima volta da quando si è aperta la nuova galleria in un bel palazzo antico di Bari vecchia, Doppelgaenger non presenta la personale di un singolo artista o gruppo, ma una collettiva con quattro artisti di diversa nazionalità e di diversa estrazione culturale. Hanno in comune il più o meno ben temperato riciclaggio formale di istanze figurali tra il fantastico e il lirico, su metri di sorvegliata ironia. La più spiritosa, e – diciamo – impertinente è la tedesca Carolin Jorg, 35 anni, che sventaglia nuvolette di cartuccelle nere come fumetti su cui sono ripetute le esclamazioni “Ahah” e “Yeah” (quasi versione grafica della storica risata di De Dominicis), issa come uno stemma un groviglio dadaista di strisce di carte tracciate con inchiostro, che ammiccano – rivela lei -alle palle di peli rigurgitate dai gatti, e dissemina disegnini un po’ goffi, come è moda dai Novanta. Il più manierato è l’altoatesino Andreas Senoner, trent’anni appena (ma ne dimostra molti di più in arte): con statuine in legno dipinto di compassato surrealismo aggiorna la tradizione di scultura in legno della sua terra cara ai turisti. Riprende invece il filo di cultura grottesca che corre da Picasso ai fratelli Chapman nelle citazioni deformanti di volti e ritratti il francese Gael Davrinche, classe 1971. Sfoggia notevole virtuosismo pittorico anche in impetuose evocazioni di steli floreali in disfacimento, un po’ Twombly con eleganza francese. L’unico che usa un mezzo non pittorico è il suo connazionale Alain Delorme, 33 anni, che partecipa con straniamenti sornioni alle molte prove di finzione visiva eccitate dalla fotografia digitale. Con la serie dei Totem portati avanti dal 2009 (due in galleria) presenta portatori di carretti fotografati per le vie di Shanghai: scene di vita cinese, ma gli accumuli vistosi (alla Arman) di mobili od oggetti trasportati dai carretti sono realizzati appunto in digitale, come altri interventi che accentuano i sintomi di modernizzazione consumista nella Cina post-Mao. Mostra piacevole dunque. Ma che essa porti addirittura “una ventata di aria fresca nelle stanze chiuse di Bari” come annuncia da Parigi Vittorio Parisi, il giovane curatore di nascita barese embedded dalla galleria, beh, fa sorridere. E’ Natale: gli auguro riflessioni meno frettolose sull’arte contemporanea, miglior conoscenza della sua città, e soprattutto senso della misura. -------- Da un po’ di giorni, quando cala il buio, in una stradina del centro storico di Terlizzi una finestra gotica si illumina e vi appare una donna che colpisce rabbiosamente con un battipanni un tappeto messo a stendere. La videoproiezione che attira molto i ragazzi è di Nina Lassila, finlandese che vive a Berlino, uno dei sette videoartisti nordeuropei che partecipano al primo tempo della rassegna “Fatamorgana”. Si svolge nel palazzetto di Cinzia Cagnetta che è anche sede domestica della galleria Omphalos e l’ha curata Giuseppe Pinto, artista brindisino che si esprime concettualmente anche progettando eventi. E’ l’animatore di un “collettivo senza fissa dimora” che si chiama “Like a little disaster” e promuove “collaborazioni artistiche, esplorazioni e sperimentazioni”. Una esplorazione a tappe della videoarte internazionale vuole essere appunto “Fatamorgana” che avrà un secondo capitolo a Terlizzi tra febbraio e marzo e poi chissà. Il filo rosso che lega le apparizioni sapientemente dislocate nelle stanze della casa è non tanto l’origine degli autori, quasi tutti scandinavi. Esibiscono performances individuali di personaggi solitari che mettono in causa e in prova il corpo con azioni minime al limite di una surreale quotidianità, con “incidenti” non violenti né provocatori (assai lontana è la Body Art “storica”). Dicono di personali inquietudini, ricerche o smarrimenti di identità, di situazioni spiazzanti o disturbanti che sollecitano l’attesa e il dubbio degli spettatori. “Niente come un piccolo disastro fa distinguere le cose”, diceva un fotografo (David Hemmings) a Vanessa Redgrave in “Blow Up” di Antonioni (1966). Nella frase-chiave del film dalla quale ha preso intestazione il collettivo nomade sta in fondo la chiave di lettura esistenziale, prima che culturale, di questi video che respirano aria di Berlino con memorie da Bruce Nauman e Marina Abramovic. Così Trine Line Nedreaas mostra in tre short una donna che mangia spade tranquillamente, un omaccio nerboruto che spacca tavolette con la testa, un vecchio che divora salsicce senza posa. Soren Thilo Funder inquadra un uomo che prova a tenere fisso lo sguardo senza batter ciglio per 52’, e gli occhi ovviamente si arrossano e lacrimano. Nella stessa stanza c’è un monitor con lo schermo pudicamente rivolto contro la parete; sbirciando di lato si potrebbero intravedere i pantaloni di un uomo che si stanno bagnando di pipì (è lo stesso video di Knut Asdam visto l’anno scorso in esplicita proiezione frontale a Bari nel teatro Margherita per la mostra dal museo di Malmoe “L’uomo senza qualità”). Hannu Karjalainen segue impassibile la lenta colatura di rivoli di vernice bianca e blu sulla testa di un uomo con occhi chiusi, sin che il volto sia coperto e plasmato a modo di scultura effimera, di maschera liquida. La giovane Sini Pelkki invece contempla in piedi da un balcone, volgendo sempre le spalle al pubblico, il verde fitto di un bosco, senza perché. Infine, scendendo dall’esterno di casa Cagnetta nel buio di una cantina, ci rilassiamo su un’onda sonora quasi ipnotica ai giochi di riflessi visivi nello spazio compiuti con globo e cerchi da Sigurdur Gudjonson, artista-prestigiatore.
Il tutto è visibile in via Toselli 21 (sino al 15 gennaio) solo su appuntamento: tel. 0803512203, cinziacagnetta@gmail.com.

giovedì 27 dicembre 2012

un Corpo Luminoso sotto la chiesa di Triggiano (per un Natale d'arte)


Nel suggestivo soccorpo della Chiesa Matrice di Triggiano, una grande videoproiezione  illumina una delle pareti di fondo degli spazi sotterranei. La si può contemplare a lunga distanza da un varco aperto sulle rovine della primitiva chiesa medievale, e già così fa effetto grotta, luogo sacrale di un evento che in questo periodo non può che essere il Natale. Primi piani di corpi trasparenti come ombre nella effusione di luce calda accennano a movenze di danza moderna mentre si dispiega nella solennità di canto in tedesco un lied di Mendelssohn con la sua musica trasognata. Poi il campo visivo si allarga in panoramica su un grembo acquoreo che accoglie in controluce una rosa di nuotatrici-danzatrici mentre si distendono onde sonore da Brahms in continuità di estasi quasi ipnotica. Il video, che s’intitola “Luminous Body”, Corpo Luminoso, è di Marinella Senatore, giovane artista napoletana in ascesa internazionale consacrata l’anno scorso dalla partecipazione alla Biennale veneziana di Bice Curiger e da una vita attiva fra molte capitali, Roma, Madrid, ora Berlino.
Così, per il decimo anno di seguito, “il sacro incontra l’arte” secondo il coraggioso e generoso progetto portato avanti dal locale Archeoclub presieduto da Anna Lagioia. Definirlo Presepe sarebbe improprio. Sin dall’inizio il mite parroco don Bonerba si è rassegnato a non vedere né il bue né l’asinello e (quasi sempre) nemmeno il Bambino Gesù vegliato dalla Madonna e san Giuseppe. Dalla prima installazione di Riccardo Dalisi e poi Di Terlizzi, Sivilli, Laudisa, Tarshito, Iolanda Spagno, Michele Zaza, Bianco e Valente, Dellerba, le citazioni narrative si sono sempre più diradate e complicate. Si è chiarito che l’arte contemporanea non può che indagare in libertà il sentimento del Sacro, cioè il mistero di un Oltre che per i cristiani si illumina nel Verbo che si fa Carne.
La Nascita come espansione simbolica di corpo nella luce è proprio il contributo di meditazione laica di Marinella Senatore. Girato con un gruppo di danzatrici in Spagna, sembra provenire dalla costola di “Rosas”, il film - opera musicale in tre tempi e città che è il più recente dei suoi grandi progetti di arte pubblica e partecipativa realizzati con il coinvolgimento di migliaia di persone dei luoghi, che evocano temi di impatto politico-sociale con operazioni multimediali governate da spiccato senso formale. Fra i mezzi cari all’artista c’è anche la musica (è violinista diplomata) ma fondamentale è il cinema con le sue procedure registiche e con le tecniche di luce raffinate alla scuola di Giuseppe Rotunno.
L’installazione è visibile con visite guidate alle 19.30 il 25,26,27 dicembre e l’1,6,13,20,27 gennaio, 2 febbraio. 
Info: 334 7660514

Prismi di luce e giochi ottici nel torrione di Molfetta (con un pioniere, Alberto Biasi)


Si rianima a Molfetta il Torrione Passari, deputato ad accogliere quando può installazioni d’arte contemporanea dialoganti con gli antichi spazi. Ora lo sprofondamento cilindrico della sua cisterna accoglie un disco su cui ruotano e s’incrociano variando di velocità d’intensità e di colore, raggi di luce. E’ uno dei “light prisms” che va producendo da mezzo secolo Alberto Biasi, pioniere e protagonista del vasto movimento internazionale di arte cinetica, programmata, ghestaltica, optical che investì anche l’Italia negli anni Sessanta-Settanta del Novecento, il tempo frenetico delle neoavanguardie. In particolare fu tra i fondatori a Padova nel 1960 del Gruppo N, e nel 1961 del gruppo Nuove Tendenze, ma ha continuato a sfornare invenzioni percettive sino a tempi recenti. Lo ha portato a Molfetta per la sua prima apparizione in Puglia il giovane critico molfettese Gaetano Centrone con la collaborazione milanese di Marco Meneguzzo e della galleria Ravizza. Negli altri spazi della torre si dispongono a parete strutture a forma di disco, di rettangoli, di rombi e di triangoli costruite su sottili sistemi di lamelle bianche e nere che danno vita ad esperienze di percezione e mutevole: apparati di astrazione dinamica che assumono forme in rilievo diverse – onde, gorghi, aloni, cristalli - col solo spostarsi del punto di osservazione. Qui l’effetto cinetico non è prodotto da congegni meccanici o elettrici ma è virtuale, si compone nell’occhio dello spettatore. Una terza suggestione è offerta, nella vicina chiesetta della Morte, da grandi pannelli rivestiti di vernice fosforescente e illuminati da lampade a luce di Wood, sui quali possiamo imprimere fuggevoli ombre del nostro corpo: remake di una installazione (Eco, 1971) dello stesso Biasi, che pare intenda donarla alla città di Molfetta.
Oggi simili apparati di meraviglie ottiche sono di comune consumo fra discoteche, ritrovi, lunapark, piazze e insegne delle metropoli occidentali e d’Oriente, film e moda persino. E’ come se si sia realizzato il sogno di “ricostruzione futurista dell’universo” preconizzato dal manifesto 1915 di Balla- Depero, più che il progetto tecno-democratico del Bauhaus con Moholy-Nagy (senza dire dei Rotorilievi di Duchamp, sempre lui). Ma nel tempo in cui Biasi agì con altri grandi protagonisti come Gianni Colombo, Getulio Alviani, Enrico Castellani, le molteplici espressioni che per comodità mediatica riduciamo sotto la dizione di Op Art, intendevano superare il soggettivismo espressionista della pittura informale –  come faceva in direzione opposta ed antagonista, la Pop Art. Celebravano la fusione progressista fra arte e scienza (le teorie della percezione diffuse da Rudolf Arnheim), il sogno democratico dell’arte collettiva, anonima, antimercantile. E soprattutto praticavano una idea di arte come “opera aperta” (Umberto Eco 1962), come processo che coinvolge  un pubblico non più passivo. Era in fondo una utopia di “morte dell’arte”, sua dissoluzione in più alto ordine interiore: così sperava il più autorevole sostenitore delle nuove tendenze, Giulio Carlo Argan. In Puglia ne fu assertore lo scomparso critico tarantino Franco Sossi anche con un attivo gruppo di artisti; nella ultima Biennale di Bari del 1966 feci intervenire autori come Mari, Castellani, Uncini in una stanza optical allestita da Mimmo Castellano.
Anche quella ultima utopia modernista si disfece presto, nella morsa fra Arte Povera e Transavanguardia. Oggi, nel Duemila dei revival, i suoi protagonisti defunti o viventi godono di omaggi prestigiosi in biennali e musei. Biasi però non pare un sopravvissuto. Ha saputo aggiornare con densità di stimoli quasi sensuali le provocazioni di fantasie percettive. Ha sollecitato dialoghi al limite del surreale con i luoghi, accendendo “arcobaleni invisibili” nel buio liquido della torre, evocando con le nostre ombre impresse nella luce i fantasmi dei defunti sepolti sotto la chiesa della Morte. Si è postmodernizzato. 

giovedì 20 dicembre 2012

Quando la foto cancella il potere (a proposito di Alessandro Cirillo)



Nel Castello di Bari si raccoglie nella quiete umbratile della cappella sulla corte una singolare quadreria. Sono fotografie di medio formato scattate nell’Hermitage di San Pietroburgo, di una serie di dipinti ottocenteschi che raffigurano personaggi della corte dei Romanov, la dinastia degli zar che fu spazzata via dalla Rivoluzione d’Ottobre. Sembrerebbero opera di un dilettante allo sbaraglio. Uno che riprende quadri senza flash, anzi sfruttando solo la luce naturale da qualche vetrata. Ma lo fa dal punto sbagliato; là dove la luce si rifrange sul dipinto, e annulla il volto dei personaggi in un grumo biancastro, un alone di luminescenza sporca, mentre delle figure si intravede a malapena qualche particolare, tagli di divise, galloni o mostrine, un muso di cavallo.

Autore dell’impresa è il noto fotografo barese Alessandro Cirillo, altro che uno sprovveduto. Ha compiuto una raffinata operazione di illeggibilità e cancellazione delle immagini proprio nel museo, luogo deputato alla loro conservazione e glorificazione. Trasforma i personaggi della storia in fantasmi senza tempo. Una sorta di vanitas moderna, una metafora di meditazione sul potere, sulla sua corruzione e caduta. Analogamente, ma in senso inverso di lettura, nel 2001 Sokurov girò nell’Hermitage il film di culto L’Arca Russa, un ininterrotto piano-sequenza che faceva rivivere sala per sala le scene di storia evocate dai quadri, come un sogno che svanisce.
A Cirillo in verità sembra stare a cuore la modalità per cui la luce trasforma quasi per alchimia la figurazione in materia disfatta, la storia in luminescenza spettrale. Quasi una estetica dell’informale - come osserva Carlo Garzia curatore e presentatore della mostra. Il quale cita altre prove di rapporto col museo che hanno impegnato molti autori, Struth e Hofer, Gursky e Jodice…A me intriga molto l’esperienza linguisticamente “sovversiva” del cancellare anziché indagare (la “camera chiara” di Roland Barthes non approverebbe). E’ il mistero della fotografia, della luce che s’intromette fra realtà e visione, esplorato all’incontrario: come negli schermi bianchi di Sugimoto dove l’immagine si è cancellata per eccesso di esposizione, o nei visi dei contadini lucani che Mario Cresci faceva sparire per eccesso di movimento della fotocamera. Allora, davvero esse est percipi? Sino al 23 dicembre, orari del castello 9.30-19, mercoledì chiuso.

Sol LeWitt e Jimmie Durham: due americani a Napoli (con un occhio alla Puglia)




Come un paziente che esce da una grave operazione prova a rimettersi in piedi il MADRE, il Museo d’arte contemporanea di Napoli retto dalla Fondazione regionale Donnaregina. Ha nominato l’altro giorno il nuovo direttore Andrea Viliani. Ma il primo segnale di convalescenza è un composito omaggio a Sol LeWitt, il celebre artista americano (1928-2007) che ha trascorso molta parte di vita fra Spoleto e la costiera amalfitana (a Praiano, il paese della moglie Carol Andriaccio). In Italia ha lasciato moltissime opere fra cui spiccano iwall drawings, i disegni-dipinti su superfici murarie progettati da lui ed eseguiti da assistenti-collaboratori. Ne ha schedato ben 297 la studiosa romana Adachiara Zevi in un prezioso libro edito da Electa che pubblica anche l’ultima intervista rilasciata a lei dall’artista nel 2006. Fra di essi c’è il murale realizzato nel 2003 a Bari nella sala Murat per il tramite di Marilena Bonomo. Proprio una sua parte di immagine, il Sole o Rosone da cui s’irradiano vibrazioni esatte di tasselli cromatici, fa da logo energetico della mostra di Napoli curata dalla stessa Zevi. Anche se la rassegna parla d’altro, nelle tre sezioni in cui si articola. Punta innanzi tutto a far rivivere, alla lettera, l’artista: presenta cinque wall drawings postumi, per così dire. Infatti sono stati realizzati nel museo sulla base di suoi disegni all’inchiostro del 2007 da giovani napoletani guidati da un disegnatore della Fondazione LeWitt che ha sede a Chester nel Connecticut. Appartengono al ciclo finale degliScribbles, gli “scarabocchi” concepiti come matasse finissime di segni in grafite nera che lasciano scoperto un solco bianco al centro, quasi un brivido di luce nel buio che si addensa.
Così l’artista chiudeva con intensità austera  il cerchio di un percorso che era partito nei Sessanta innalzando la bandiera di un’arte primaria fondata sulla assolutezza di una idea progettuale che richiede solo di essere scrupolosamente tradotta nello spazio concreto. Aveva inventato moduli seriali espressi con grafismi lineari  o eretti con bianche griglie di cubi, quasi miraggi di torri, piramidi, ziggurat  (“I concettuali sono mistici più che razionalisti” sosteneva nelle sue Sentences del 1969).  L’incontro italiano con Giotto, con Piero della Francesca, con l’arte del Quattrocento favorì il passaggio dalla fredda linea analitica a dinamismi combinatori fra il disegno “piatto” e gli spazi architettonici, e la tessitura di bande, curve, isometrìe di colore sinuoso. Nei Novanta era andato “oltre la geometria” innalzando muri di cemento e dissolvendo i segni in pulviscoli di ritrovata monocromìa. Questa avventura complessa è evocata sommariamente da alcune sculture-strutture e da una quarantina di gouaches e disegni prestati da collezioni napoletane. Sceltalow cost, anche; ma supportata dai rapporti intensi dell’autore con Napoli sin dai tempi di Lucio Amelio (suoi wall drawings stanno nella stazione Materdei della metropolitana,  a Capodimonte, nella Fondazione Morra Greco).
Vengono invece dall’America le 95 opere di altri artisti che costituiscono la terza sezione della mostra, estratte dalla collezione di LeWitt (circa 4000 pezzi) gestita dalla Fondazione di Chester. Una antologia che rivela la varietà sensibile dei suoi interessi culturali. Non solo i colleghi-amici della comune stagione concettual-minimalista (spiccano lavori di Robert Mangold, Eva Hesse,  Hans Haacke, On Kawara, Dibbets). Grandi fotografi, specie protagonisti della serialità come i tedeschi August Sander e i Becher (e Muybridge citato da un suo lavoro). Anche la linea  performativa, con un raro video di  Steve Reich- Philip Glass. E la bellezza ironica e “calda” degli italiani, dal suo favorito Giulio Paolini a Boetti, da Kounellis a Merz, persino Salvo. Sino alle stampe giapponesi di Yoshiku, 1867…Non deve sorprendere: Sol LeWitt è stato uno degli ultimi sacerdoti del culto senza tempo né confini dell’Arte per l’Arte. Del sogno per il quale “anche Cubi, Quadrati e Linee fanno parte del mondo”.
*La mostra “Sol LeWitt- L’artista e i suoi artisti” è aperta nel Museo MADRE di Napoli (via Settembrini 79) sino al 1.aprile 2013. Orari: da lunedì a sabato 10.30- 19.30, domenica 10-23, martedì chiuso. Ingresso 7 euro, ridotto 3,50. 
Info: tel. 08119313016

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Due possenti radici di secolari ulivi di Puglia s’impongono come sculture informali all’ingresso della Sala Dorica nella corte del Palazzo Reale di Napoli. Aprono la mostra personale di Jimmie Durham, il 72nne artista nativo-americano di fama internazionale, allestita come evento iniziale del “Progetto XXI”. E’ una  rassegna di arte “avanzata e sperimentale” promossa dalla Fondazione Donnaregina ma affidata alle cure della Fondazione Morra Greco, che proporrà lungo tutto il 2013 nove mostre personali di autori sia emergenti che affermati e quattro “residenze d’artista”. Durham si è caricato dei monumentali objets trouvées vegetali l’estate scorsa nelle campagne di Ostuni dove Maurizio Morra Greco, il collezionista napoletano titolare della Fondazione, possiede una residenza. Da altri  ulivi pugliesi e da alberi di noce molisani ha dedotto assi di taglio sommario, blocchi rudemente sbozzati, rami denudati e li ha composti per disporre nello spazio ritmato da colonne d’ordine dorico una selva di “sculture” povere. 
I pezzi s’innalzano come sogni energetici di frammentata bellezza. Li tengono insieme placche inchiodate o morsetti di falegname, in bilico precario su colonnette treppiedi tavolini che l’artista ha scovato dai rigattieri di Napoli. Li segnano o puntellano blocchetti di grigia lava vesuviana. Si protendono come creature meticce nate da connubi ancestrali fra natura e memorie dei luoghi. Dei totem, verrebbe da dire se Durham non raccomandasse di evitare simili definizioni. Così come non ama che si esalti la sua origine di pellerossa. Non perché rinneghi la tribù cherokee dell’Arkansas nella quale è nato, mentre continua a battersi per i diritti degli indiani d’America. Ma vuole evitare l’equivoco di letture etno-folcloriche di opere che semmai interrogano il vitalismo dei luoghi incontrati. Lui da anni vive in Italia (da gennaio prossimo proprio a Napoli): ed è qui che indaga il senso profondo del rapporto che lega natura e memoria, legni e pietre con il lavoro dell’uomo. Per questo richiama come esempio l’arte del grande Brancusi. “Wood stone and friends”  s’intitola appunto la sua personale. E’ visitabile con ingresso libero sino al 27 febbraio 2013, mentre un’altra significativa sala è aperta nel MACRO di Roma. 

Pietro Marino


mercoledì 12 dicembre 2012

Penone, l'arte di rovesciare gli occhi


Il Respiro e il Soffio, lo Sguardo e la Pelle, il Cuore e il Sangue, la Memoria e la Parola. Sono le parole-chiave per definire il “corpo d’arte”di Giuseppe Penone (Garessio, Cuneo 1947), divenuto famoso per una idea di scultura come simbiosi totale fra soggettività emozionale dell’autore e la natura come  materia vivente. Termini evocati da Laurent Busine per leggere in modo unitario il complesso percorso compiuto dall’artista, nella imponente monografia curata dal critico francese per le edizioni Electa (408 pagg., 350 ill., 130 euro). Esperienza di suggestiva ambiguità, esplosa nell’ ambito delle neoavanguardie italiane degli anni Sessanta-Settanta del Novecento. Penone esordiva infatti nel 1969 sottoponendo  alberelli di un bosco a pressioni e inserzioni di materiali in ferro che sarebbero stati incorporati nella crescita, scorticando tronchi sino a mettere in luce gli anelli rivelatori dell’età vegetale, scavando travi sino a rintracciare tronco e rami originari, seppellendo foto di sé con tuberi di patate che si sarebbero impregnati del suo ritratto. Prove (tradotte in fotografie) subito inquadrate da Germano Celant nella “sua” Arte Povera . Ma gli schemi del movimento celantiano stavano stretti ad un autore che esaltava l’intuizione individuale distaccata dalle contingenze sociali e  storiche. Insieme con le pratiche processuali, con gli approcci alla concretezza della materia  -  motivi correnti nel tempo postinformale - Penone valorizzava sapienze antiche della scultura: la manualità e la tattilità, il fare artigianale, il plasmare e manipolare. Recuperava – sin dai primi Settanta - tecniche tradizionali come il calco e la fusione a cera persa, e materiali nobili come il bronzo e il marmo.
Per questo il passaggio per l’Arte Povera è appena menzionato nella monografia, nella quale si riconosce (specie nella lunga intervista con Benjamin Bullock) il progetto dell’artista di rivedersi alla luce dell’approdo attuale. Quello – consacrato da riconoscimenti internazionali come il ritorno a  Documenta 13 – che esalta la potenza installativa e la raffinatezza estetica di una scultura che investe con meraviglianti metamorfosi legni e pietre, foglie e radici, acqua ed aria. L’origine concettuale sta nel noto lavoro fotografico del 1970, Rovesciare i propri occhi (non a caso è in copertina del volume): l’artista con lenti a specchio come pupille, non vede ma fa vedere a noi il paesaggio che vi si riflette. Di qui la pratica dello spellamento, dello scavamento, del calco. Ecco le pressioni sulle palpebre e sulla pelle come “guanto del corpo” che – ingrandite in proiezione – si traducono in grandi textures grafiche e in nervature plastiche di cuoio o di marmo. Ecco i calchi di “pelli di foglie” (in preferenza di mitico alloro) traslati in tapisseries di bronzo, complicati nel 2000 da spine di acacia. Ecco la poetica dello scorrimento-ribaltamento del tempo: con le colate di bronzo o di resina rossa come parafrasi del sistema sanguigno; con i marmi di Carrara scavati a ritrovarvi le vene (Anatomie 1990); con gli sdoppiamenti di sassi levigati dallo scorrere di acque (Essere fiume, 1981), pietre di fiume che si posano anche come nidi fra rami d’albero come a Kassel. Altre operazioni chiamano in causa moti di acqua –Propagazione 1997 di centri concentrici creati col dito  -  e di aria (dai Soffi di creta 1978 aiSoffi di foglie 1979 sino a Respirare l’ombra, 1997-2002).
Si è accentuata insomma nel tempo una poetica dell’antropomorfismo che sublima particolari di natura in monumentali evocazioni di cuori, polmoni, cervelli, arti umani. Con variazioni infinite che sfociano talvolta in manierismo virtuoso. Ma al centro della invenzione dell’artista sta un vitalismo, o “animismo ragionato” capace di esaltarsi in metafore spazio-temporali. Come l’Albero delle vocali in bronzo che giace dal 2000 come tronco disteso nel giardino delle Tuileries a Parigi, al quale dedica un saggio Didier Semin. Attorno vi crescono cinque alberi veri di specie diverse, quasi a comporre un “pantheon della natura”. Lo conferma lo stesso Penone, autocelebrandosi in uno dei suoi pensieri che contribuiscono alla completezza di apparati del volume: “Nel mese di maggio del 1969 sono entrato nella foresta del legno e ho iniziato un cammino nel tempo lento, riflessivo e sorpreso, attento ad ogni piccola forma racchiusa nel fluido legno. E’ allora che questa cattedrale è sorta dal mondo muto della materia, per entrare in quello della scultura e dell’uso poetico del reale”.

venerdì 7 dicembre 2012

Nathalie Djurberg, la ragazza svedese che sconvolge il museo di Pino Pascali


Una buia foresta di nove spettrali alberi senza fronde si erge nel salone centrale del Museo Pascali a Polignano a Mare. Sul pavimento, sotto i neri tronchi di polistirolo, scorrono in videoanimazione i pupazzi deformati di tre donne nude che attaccano un incauto giovane voyeur che le spiava nel bosco, lo violentano e lo bruciano vivo (Johnny, 2008). Un’altraclaymation – cioè animazione con pupazzi di plastilina o creta – si proietta sulla parete di fondo. Si vede il cadavere di una donna nuda che si decompone orrendamente ai margini di una foresta; ma appaiono come in un cartone disneyano una talpa e un procione che insinuandosi nello scheletro della donna la fanno  rivivere trasformata in uno strano mostro (Turn into me, 2008). Intanto nell’ambiente si diffonde in svolgimento ossessivo, quasi ipnotico, un track musicale tecno-minimalista. Con questo impatto spettacolare, affascinante e inquietante, si presenta al pubblico pugliese Nathalie Djurberg, la giovane (1978) artista svedese che aggiunge al suo già prestigioso palmares internazionale il premio Pino Pascali 2012. Ma condividendolo per la prima volta col compagno di vita e di arte, il connazionale coetaneo musicista Hans Berg, autore delle colonne sonore di tutte le sue animazioni sin da quando si misero insieme a Berlino nel 2004, la città dove vivono e lavorano.
Dell’ascesa veloce di Nathalie ho segnalato diverse tappe: da quando la notai  nella Biennale di Berlino 2006 “Uomini e topi” curata dalla coppia italiana Cattelan-Gioni (l’anno prima l’aveva lanciata a Milano Giò Marconi) alla sala della Biennale di Venezia 2009 che la premiò con il Leone d’Argento come migliore artista giovane, sino alla apparizione a Bari nel teatro Margherita nel 2011 per la mostra di videoarte dal museo di Malmoe “L’uomo senza qualità”. Il segreto primo del suo successo sta in una ambigua fascinazione: tra la sollecitazione fantastica e la seduzione visiva dei pupazzi umani e animali manipolati con “eccessive” deformazioni e scomposizioni da “cinema per ragazzi” o da teatro di marionette, e lo spiazzante turbamento indotto dalla tensione drammatica dei temi trattati. Sono ossessioni e perversioni sessuali, vizi e violenze della condizione umana, la lotta tra vita e morte, tra corruzione e metamorfosi dei corpi.
Così l’arte “scandalosa” della Djurberg si inscrive nella vasta cultura del Grottesco, sviscerata da grandi studiosi come Bachtin. Tema che si svolge nel filo storico da Bosch a Goya a Bacon, da Bellmer alla Bourgeois. Con ramificazioni sempre più estese nel contemporaneo, Paul Mc Carthy e i fratelli Chapman (premio Pascali 2010) come esempi più vicini. Ma nelle letture giovanili della bionda ragazza svedese, figlia di una marionettista, ci devono essere state le avventure “pornografiche” della “Storia dell’occhio” di Georges Bataille (1928), prodotto della cultura surreal - freudiana  diffusa nel Novecento europeo. Lo confermano citazioni quasi puntuali. Come nell’intenso  “Didn’t you know I’m made of butter ? (2011) proiettato in altra saletta, con un toro bianco che si accoppia lascivamente  in un salotto con una donna la quale si scioglie “come burro nella sabbia”, e in The Prostitute (2008) una installazione nella quale una bambolona in plexiglass discinta e vistosa accovacciata su un letto chiuso da drappeggi rossi ostentava al  voyeurismo del pubblico un deretano acceso da un video con prestazioni sessuali hard. A Polignano ne troneggia, a mo’ di teatrino, il divertente (e più castigato) modello in scala ridotta.
Bisogna dire che il mondo di Nathalie si è presto incupito ed inasprito dopo gli esordi che dal 2005 proponevano situazioni in interni borghesi di più sciolta satira, quasi comiche (come, a Berlino, la tigre che leccava il lato B di una ragazza), anche con inserzioni fumettistiche. Un passaggio di crisi è segnato dal video 2007, l’unico con animazione grafica in carboncino, “Naturalmente mi occupo di magia”, dove il processo di scomposizione di una donna nuda è espresso con livido disegno cavernicolo e scrittura che si disfà. La svolta fu segnata dalla mostra del 2008 “Turn into me” curata a Milano da Germano Celant nella Fondazione Prada, da cui provengono le opere esposte. Infatti Miuccia Prada (“la nuova Peggy Guggenheim”, è stato scritto) ha acquisito in blocco (quasi) tutta la produzione della Djurberg e la porta in giro per il mondo, con mostre blockbuster come questa nel museo Pascali .
Mostre nelle quali la spettacolarità installativa con elementi plastici e stoffe assume rilievo sempre crescente, anche per l’incalzante commento musicale di Hans Berg con sequenze di timbri elettronici fra il mentale e il cosmico. Visioni che esplodono in umore noir  nella esibizione di due Balene (2009-10) spiaggiate con i neri corpi di gomma squartati sino ad esibire i resti di bimbi divorati. Come sono lontane le balene bianche di Pino Pascali, con le loro metafisiche sezioni di pura tela emergenti da silenziosi miti mediterranei.   
PIETRO MARINO
  
 * Si svolge oggi alle 19 a Polignano a Mare nella Fondazione Museo Pino Pascali (via Parco del Lauro 119) la cerimonia di consegna del premio Pascali 2012 all’artista Nathalie Djurberg e al musicista Hans Berg, attribuito da una commissione composta da Rosalba Branà direttrice del Museo, Roberto Lacarbonara, Mariapaola Spinelli. Partecipano il sindaco di Polignano e presidente della Fondazione Domenico Vitto  e l’assessore regionale a Mediterraneo Cultura e Turismo Silvia Godelli.Vengono anche presentati, con l’assessore provinciale alla Cultura Nuccio Altieri e Clara Gelao direttrice della Pinacoteca Provinciale di Bari, l’opera di Pino Pascali  “9mq. di Pozzanghere” concessa in comodato dalla Provincia di Bari e il nuovo allestimento della videoinstallazione “Frammenti della Battaglia” di Studio Azzurro. La mostra Djurberg - Berg rimarrà aperta sino al 27 gennaio 2013. Orari: 11-13 e 17-21, lunedì chiuso. 

Info: tel. 0804249354 - cell. 3332091920
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