giovedì 28 febbraio 2013

Una tenda d'arte fatta col vento (da Maia Marinelli, barese a New York)



Una gigantesca “scultura cinetica”, una specie di tenda-vela alta 6 metri e distesa per 30 metri è la futuristica impresa d’arte-scienza che sta realizzando una giovane artista che vive a New York, ma che è cresciuta a Bari dove vivono i suoi genitori. E’ Maia Anthea Marinelli, che si fece conoscere al pubblico della sua città con le partecipazioni nel 2002 al premio Gemine Muse (una installazione nel Museo Storico) e nel 2004 al premio GAP per giovani artisti pugliesi (una spettacolare installazione-performance nel Castello Svevo). S’intitola “Wind Playground” il progetto, che dopo parziali apparizioni (a Governor’s Island e nel Nevada)  è stato selezionato per la nona edizione di “Sculpture by the Sea”, spettacolare mostra internazionale di opere d’arte “in riva al mare” che si tiene su una spiaggia di Perth in Australia, sull’Oceano Indiano, in programma dall’8 al 24 marzo.
“Wind Playground” è composta da una struttura in alberi di carbonio tenuta in tensione da cime su cui sono montate delle “vele” ricucite nei tessuti da kitesurf e windsurf in vari colori. E’ modellata con quattro tunnel interni, “gallerie del vento” che vi soffia con diverse accelerazioni (scientificamente misurate e testate) con le quali i visitatori possono “giocare ed interagire”(non saprei come, provare per credere). Il vento insomma come “materiale da scolpire”. Sembra un’operazione visionaria, ma è sorretta da precisi calcoli tecnici: è disegnata “secondo i principi dell’effetto Venturi” (il rapporto fisico tra pressione e velocità). Idea alla Leonardo da Vinci, diciamo. Sarebbe piaciuta a Pino Pascali, che sognava opere mosse da vento, acqua, calore. Ma sono diversi gli artisti che traducono esperienze scientifiche e saperi tecnologici in libertà di immaginario che sollecita partecipazione. Maia ci riversa la passione per il mare trasmessale sin da piccola da  “zio Minguccio”, un prozio pescatore (“sono cresciuta in una barca a vela”) e praticata tuttora a livello sportivo con windsurf e affini. Ma la passione e la tecnica non bastano, occorrono tanti soldi. Il progetto è in parte finanziato dalla Black Rock Art, una Foundation di San Francisco che sostiene progetti di arte interattiva e di partecipazione civile. Ma l’artista cerca altri sponsor e donatori, anche da Bari e dalla Puglia. Per saperne di più, o partecipare all’iniziativa,  andare su www.windplayground.com

mercoledì 27 febbraio 2013

Ana Mendieta, la Natura è Donna (una mostra nel Castello di Rivoli)



Non è il momento migliore, forse, per parlare con la dovuta attenzione di Ana Mendieta, grande artista di origine cubana ma poco nota al pubblico anche per la morte precoce (L’Avana 1948- New York 1985). Si affermò negli anni Settanta come interprete originale, piuttosto borderline, dei movimenti con i quali l’arte si proponeva come esperienza performativa, mettendo in gioco il corpo stesso degli artisti e uscendo dagli spazi deputati, cercando nuovi rapporti col territorio e con la natura. Le dedica – per la prima volta in Italia - un’ampia retrospettiva il Museo Castello di Rivoli, per un coraggioso progetto di mostre dedicate a “figure in ombra” che operano “negli interstizi della storia”. Così intende Beatrice Merz, rimasta da sola alla direzione del Museo dopo l’abbandono di Andrea Bellini “emigrato”a Ginevra.
Però – ecco le difficoltà di contesto – il mandato della Merz è in scadenza e non è stato rinnovato né sono stati definiti i criteri per la successione. E’ in crisi tutto il sistema dell’arte a Torino, sinora invidiato come modello virtuoso. Tagli dei fondi pubblici e delle banche; disaffezione per il contemporaneo  – in primis dalla Regione Piemonte a conduzione leghista – accusato di essere poco “popolare”; confusa idea di accorpare sotto unica amministrazione Museo di Rivoli, Galleria d’Arte Moderna di Torino e Artissima, fiera d’arte a controllo pubblico; rissa di potere sulle teste da tagliare (in pericolo anche Eccher direttore della GAM) e da incoronare. Di qui proteste dei dipendenti di Rivoli e della stessa Merz e roventi polemiche mediatiche.
In questo clima inusuale per l’aplomb torinese appare più spiazzante l’incontro nella Manica Lunga del Castello con i video, le fotografie, le “sculture” di un’artista che volle farsi “elemento tra gli elementi” della natura. La Natura- Donna,  vissuta come “energia universale che corre attraverso tutte le cose” (parole sue) attingendo alle culture caraibiche del magico, del primitivo, dell’archetipico. Le trapiantò dalla sua Cuba - lasciata fuggendo negli USA con la sua famiglia quando aveva 12 anni - nelle sperimentazioni radicali compiute tra lo Iowa e il Messico. Certamente non ignara di Bruce Nauman e Vito Acconci, di Marina Abramovic e Cindy Sherman, come delle esperienze di Body Art e Land Art. Ma con un sentimento totale di appartenenza alla cultura e alla vita da cui era stata sradicata.
Sottopone il suo corpo a mutazioni animistiche coprendosi di piume (Bird Transformation, 1972) o di fango che la omologa ad un albero (Arbol de la Vida, 1976). Distorce il volto con “variazioni “ di schiume, parrucche, calze. Lascia per terra impronte di sé con le materie vegetali e minerali le più diverse, foglie e cenere, fiori e fango (Siluetas,1976). Scrive “She got Love” col suo sangue, impasta col sangue pietre ed acque, mette in scena uno stupro (Rape Performance, 1973) con evidenza simbolista per cui è accostata ai movimenti femministi dei Sessanta. Col Sangue e l’Eros, il Fuoco che purifica e incide (una fotografia dell’impronta bruciata di una mano apre la mostra). Col fuoco e con polvere da sparo plasma tronchi di olmo come Totem nei due anni (1983-84) vissuti a Roma, per aver vinto il Roma Prize della American Academy. E’ il suo ultimo accostamento all’arte come “scultura” prima del tragico ritorno a New York. Infatti l’8 settembre del 1985 si schiantò dopo un volo dal 34. piano della casa in cui viveva col suo secondo marito Carl Andre, celebre artista minimal. Suicidio, malore, omicidio? (Andre fu processato ed assolto).
Il ciclo di “eterno ritorno” fra Vita e Morte che aveva celebrato s’interruppe così. Ma si interrompeva nei mediatici anni Ottanta anche il percorso di identificazione fra Arte e Vita che aveva segnato il tempo nel quale era apparsa Ana Mendieta. Anche per questo il silenzio calò su di lei. Così come, nei percorsi di riscoperta delle ragioni del Corpo che l’arte ha ripreso a battere dai Novanta, tornano a guardare al suo esempio artiste di nuova generazione che rivivono le sue origini e le sue passioni. Come la connazionale Tania Bruguera, la guatemalteca José Maria Calindo, la colombiana Doris Salcedo, la palestinese-libanese Mona Hatoum, l’afgana Lida Abdul. La esaltano anche le americane Guerrilla Girls innalzando bandiere  di arte contro il potere maschile. Ma Ana si batteva per qualcosa di molto diverso e di più profondo: “Non esiste un passato originale che si debba redimere…Esiste, soprattutto, la ricerca dell’origine”.
PIETRO MARINO
*La mostra “Ana Mendieta.She got Love” a cura di Beatrice Merz e Olga Gambari è aperta nel Museo Castello di Rivoli sino al 5 maggio 2013. Orari: martedì-venerdì 10-17, sabato  e domenica 10 -19. Ingresso euro 6,50, ridotto 4,50. Info: tel. 011 9565222,www.castellodirivoli.org

Storia barese del Centrosei (e della sua Belle Epoque)



Umberto Baldassarre Cubo specchiante, 1971

NIcola de Benedictis (foto Lino Sivilli)


Fa rivivere una vicenda rimossa un volume appena edito da Adda, “Centrosei - Storia di una galleria”. Nell’ottobre del 1970 sei artisti riuniti in associazione annunciavano l’apertura a Bari della galleria sul fianco nord del teatro Petruzzelli. Erano Umberto Baldassarre, Mimmo Conenna, Sergio Da Molin, Franca Maranò, Michele De Palma, Vitantonio Russo. Intendevano offrire “le testimonianze più vive e significative della cultura e dell’arte che caratterizzano il nostro tempo” e presentare “gli artisti pugliesi più aperti ai problemi dei nuovi linguaggi visivi”. E questo, “in un contesto socioeconomico in via di sviluppo e di forte crescita qual è la regione pugliese”. In effetti il capoluogo di Puglia era nel pieno della sua Belle Epoque, sostiene Giandomenico Amendola nella laterziana “Storia di Bari “(1997): il ventennio fra i Sessanta e la fine dei Settanta del secolo scorso nel quale la città – scrive il sociologo -  “aveva l’impressione di essere entrata in un ciclo di sviluppo lungo e senza fine alimentato da un flusso inesauribile di risorse”
Voglia, o illusione che si esprimeva anche nel campo dell’arte, pur fra resistenze e  contraddizioni. La nascita del Centrosei segnò da una parte il culmine dei fermenti che avevano indotto nei Sessanta un pullulare di gallerie con impulsi al rinnovamento da parte di diversi giovani artisti dopo la Biennale di Bari 1966. Dall’altra favorì percorsi ravvicinati fra “nuove situazioni” pop, concettuali, poveriste, performative, mentre diversi eventi pubblici fra 1969 e 1971 portavano in città gli sconvolgimenti in corso nell’arte internazionale. Orizzonte che fu decisamente ampliato dall’irruzione in scena della galleria di Marilena Bonomo nel dicembre del 1971. Il Centrosei svolse iniziative di slancio lungo tutti i Settanta. La  grafica della Pop Art, gli oggetti del Nouveau Realisme, disegni di Sol Lewitt, la poesia visiva, narrative art, grafiche e foto di concettuali da Agnetti a Boetti a De Dominicis, personali di Oldenburg, Spalletti, Calzolari, Alviani. Importanti, nella loro diversità, gli impulsi innovativi dei sei fondatori. Michele De Palma con fine pittura sul crinale dell’astrattismo. Umberto Baldassarre pioniere del passaggio dall’informale allo strutturalismo. Mimmo Conenna, il suo pupillo, irrequieto sperimentatore tra op e arte povera. Vitantonio Russo, con l’originale proposta concettuale della Economic Art. Franca Maranò, la prima donna che osò a Bari un’arte performativa con umori femministi. Con loro apparvero Lino Sivilli concettual- poverista, Francesco Matarrese sull’estremo della smaterializzazione dell’arte, i ghestaltici tarantini Di Coste e Delle Foglie, il landartista leccese Sandro Greco, “l’americana a Bari” Adele Plotkin.
Però l’eclettico gruppo si dissolse presto per vari motivi: la morte del suo animatore  Baldassarre nel 1972, il ritorno al Nord del veneto Da Molin, dissensi e strade diverse per De Palma Conenna e Russo. Rimase dal 1975 Franca Maranò e con lei il marito Nicola De Benedictis, che avendo già seguito con discrezione la vita della galleria finì per diventarne il solitario e idealistico direttore. Gli Ottanta, anni del riflusso, videro interessanti ma meno spericolate operazioni, con le affermazioni di altri artisti pugliesi, Avellis, Iurilli, Carone, Maggiulli, Rizzo. L’avventura si esaurì nel 1989, quando ormai era iniziato il declino di Bari, e s’insinuava il “mal di Levante” diagnosticato da Franco Cassano. Fallì anche un breve tentativo di ripresa – 1990-91 – sotto il palazzo della Meridiana in piazza del Ferrarese, pur con mostre importanti, da Renata Boero a Michele Zaza ed Enzo Guaricci.
Nicola De Benedictis – popolare per l’umiltà e la passione del suo impegno – si ritirò a vita privata. Solo negli ultimi anni, semiparalizzato, fu indotto da qualcuno di noi all’impresa di ricostruire per quanto possibile, la storia del Centrosei. Ne ricompose i reperti in sedici grossi album, donati quasi in punto di morte (nel 2010, a 93 anni) al Dipartimento di Lettere Lingue e Arti dell’Università. Christine Farese Sperken, docente di Storia dell’Arte Contemporanea, ne ha curato il libro che si presenta domani, denso di documenti e analisi di contesto, con la collaborazione di suoi ricercatori (Edoardo Trisciuzzi, Nicola Zito) e di Anna D’Elia. Chiede che sia studiato e approfondito come “strumento  di ricerca per la conoscenza del passato artistico-culturale della nostra Regione”. Ce ne sarà – speriamo – occasione.  Perché di questo Bari e la Puglia hanno bisogno. Di uscire dalle favole del “c’era una volta” per capire a che punto siamo, e perché. Non solo in arte.
PIETRO MARINO
*Viene presentato domani mercoledì  27 febbraio a Bari il libro “Centrosei - Storia di una Galleria” a cura di Christine Farese Sperken (Salone degli Affreschi dell’Ateneo, ore 17). Saluti del prof. Domenico Mugnolo direttore del Dipartimento Lettere Lingue e Arti dell’Università e della prof. Grazia Di Staso direttrice del CUTAMC. Intervengono Francesco Moschini segretario generale dell’Accademia di San Luca e il critico d’arte Pietro Marino.

martedì 19 febbraio 2013

Gabriele Basilico, la fotografia come ritratto di città


 


Aveva condensato in 90 scatti il ritratto di Bari, in una mostra che si tenne nella Pinacoteca Provinciale fra il 2007 e il 2008. Nell’allucinata fissità dell’amato bianconero le sue immagini, spesso sorvolanti in voli obliqui il panorama urbano per poi discendere nella sorpresa di tagli angolari fra strade palazzi e mare, trasmettevano l’idea di una città in ricerca identitaria fra sogni smarriti di modernità. Era questo del resto il metodo con cui Gabriele Basilico – il grande fotografo scomparso a 69 anni - si era affermato ben oltre i confini nazionali come l’artista che più di ogni altro ha interrogato con la sua camera il corpo delle città del mondo, come  - diceva - “identità organica in movimento, una dilatazione del nostro corpo”. Ed è per questo che dalle sue immagini erano state ben presto – dopo gli esordi milanesi - escluse le figure degli abitanti: perché i personaggi erano gli edifici, le fabbriche, i magazzini, le strade. Con le loro storie segrete, i segni del tempo collettivo.
 Dell’immenso repertorio di città d’Italia d’Europa e del mondo da lui indagate in modo sistematico si ama citare come ciclo più famoso quello su Beirut, realizzato nel 1991 nel tempo di interstizio tra la fine della lunga guerra civile che l’aveva devastata e l’attesa di una ricostruzione che ancora doveva iniziare. Quelle visioni di palazzi che si ergevano come corpi di martirio su lame di strade deserte restituivano con smarrimento metafisico il sentimento del Crollo – a dirla con Marco Belpoliti – che ha attraversato la contemporaneità, dal Muro di Berlino alle Torri Gemelle. Tanto da essere assunte senza se e senza ma fra le opere esposte nella Biennale di Venezia del 2007 (l’edizione diretta dall’americano Robert Storr) quasi a ribadire, fra l’altro (ma da tempo non ce n’è più bisogno) che nessuna distinzione è più possibile fra arte e fotografia, se non nelle destinazioni d’uso delle immagini. E nella Biennale Architettura di Chipperfield, l’anno scorso, le sue fotografie dilagavano: ha lasciato all’istituzione veneziana un corpo completo di immagini di tutti i padiglioni.
Così nel lavoro di Basilico la committenza professionale e la libera interrogazione dei luoghi si sono da sempre intrecciate: nella ricerca di equilibrio – sempre parole sue – fra “mandato sociale e sperimentazione del linguaggio”. Sin dai “Ritratti di fabbriche” di Milano del 1978-80, primo atto con evidenza formale di un rapporto che ben si può definire  di amore per la città in cui è nato e vissuto pur nella professione di giramondo; e a Milano è stata dedicata l’ultima sua apparizione, quando – già malato da oltre un anno – ha fatto proiettare sue immagini sulle facciate degli edifici della piazza dedicata a Gae Aulenti, altra grande milanese scomparsa. E se nel rapporto non solo con l’architettura ma con gli architetti si può riconoscere uno dei motivi costanti del lavoro del fotografo, altrettanto stretti appaiono i legami con la cultura della visione nel suo complesso.
Si può immaginare che nelle sue radici di’immaginario “local” qualche parte l’abbia avuta la memoria di Sironi, massimo cantore di una metafisica aspra di Milano come città della modernità industriale agli albori del Novecento. Ma nella cultura della fotografia certamente un passaggio decisivo anche per Basilico fu la partecipazione a “Viaggio in Italia”, la storica mostra  curata a Bari, nella stessa Pinacoteca, da Luigi Ghirri con i suoi compagni baresi nel 1984, che innovava la nozione di paesaggio in fotografia. Lì Basilico espose appunto alcune visioni di edifici di Milano 1980, nelle quali era già tutta in nuce la “malinconia” (termine caro a De Chirico) con la quale ha stabilito il suo rapporto anche con il paesaggio naturale (come nelle “Sezioni di paesaggio italiano”, 1996 e nei “Porti di mare”, 1982-88) . Ma certamente la sua poetica si definisce nel rapporto con le città. Città che vanno da Berlino (2000) a Istanbul (20010) solo per citarne un paio fra tante che costituiscono un album di dimensioni inusitate nella cultura europea (fu l’unico fotografo italiano ingaggiato nella missione di ricognizione sistematica dell’Europa indetta dal progetto francese D.A.T.A.R). Da un punto di vista linguistico la sua fotografia è andata affinando nel tempo proprio la lucidità di sguardo largo, una sorta di “giusta distanza” che sottrae i corpi murari all’entropia dei sentimenti oltre che del tempo. Perché – ha ben scritto Roberta Valtorta in un saggio sull’autore – in tutte le città “ci sono presenze famigliari che consentono di affrontare lo smarrimento di fronte al nuovo”.