mercoledì 30 gennaio 2013

ricordo di Shimamoto, "l'acrobata dello sguardo"



E’ morto a 85 anni Shozo Shimamoto, celebrato ultimo pioniere vivente del Gruppo Gutai, il drappello di artisti giapponesi riconosciuto come la prima neoavanguardia internazionale del secondo Novecento, anticipatrice della action painting, degli happenings, della body art, di Fluxus. Era molto noto in campo internazionale, presente nei più grandi musei. In Italia era molto amato per una serie di mostre ed azioni dominate dal lancio di bottiglie piene ciascuna di colore diverso contro tele per terra o a parete, in modo da ottenere effetti da pittura “informale” energica e vibrante con schizzi e macchie di colori intensi e brillanti. Un gesto per il quale fu definito dai media “il  Pollock d’Oriente”. Azioni  di grande impatto spettacolare: anche per l’avanzare dell’età il bottle crash avveniva dall’alto, dalla cabina di un carrello elevatore, al cospetto di gran pubblico, come a Reggio Emilia nel 2011 per una mostra in Palazzo Magnani (dove è sorta una Fondazione a suo nome). Ma altre grandi mostre gli sono state dedicate sin dal 1999 nella Galleria d’Arte Moderna di Roma, e in anni recenti a Napoli e Capri per la Fondazione di Beppe Morra e nel Palazzo Ducale di Genova, per la costante cura di Achille Bonito Oliva. Il celebre critico, che lo ha definito “l’acrobata dello sguardo”, lo portò anche in Puglia, nel 2009 per l’edizione di Intramoenia Extrart nel castello di Barletta: vi era installata una statua di Budda – anteposta al busto medievale del presunto di Federico – intrisa dei suoi schizzi di colore, con i relativi barattoli lasciati per terra tutt’attorno.
Tra pittura di azione (espressa anche in opere con tagli e buchi, pur senza rapporti evidenti con Lucio Fontana)  e installazione degli oggetti ad essa legati, Shimamoto riprendeva e rinnovava una idea di arte come esperienza globale che mette in causa il corpo. Proprio la relazione dialettica, anche conflittuale,  fra spirito e corpo, è il significato di “Gutai”, il termine da cui prese nome il movimento che prese vita - per iniziativa del pittore Yiro Yoshihara -  in un paesino del Giappone lontano da Tokyo negli anni in cui il paese era occupato dalle truppe americane dopo la sconfitta segnata dall’olocausto nucleare di Hiroshima e Nagasaki. Così un sentimento nuovo di violenza fisica si sposava originalmente alla unità di spirito-corpo predicata da Taoismo. Nella prima esibizione del gruppo, 1956, Shimamoto sparò del colore da un cannoncino. Poi passò al lancio di bottiglie che rompendosi schizzavano colore sulle tele, in apparente casualità. Ma come nel dripping che Jackson Pollock eseguiva sulla remota ed opposta sponda atalantica di New York, la nevrosi del gesto era governata dalla sapienza creativa dell’artista. Nel caso di Shimamoto si  nutriva dalla cultura felice del sontuoso, “decorativo” cromatismo orientale. Una complessità di esperienza di questo mite omino che ha portato spirito japaniste nel corpo delle inquietudini ibridi e nomadi del nuovo tempo occidentale.


Nel cinema "on the road" il sogno e la crisi dell'America

"EASY RIDER" di Dennis Hopper, 1969


L’America negli ultimi lustri è andata perdendo fascino. Una sequenza di guerre non vinte dal Vietnam all’Iraq all’Afghanistan, e di crisi epocali dalla Grande Depressione del 1929 allo spettro del fiscal cliff di oggi, hanno fatto sbiadire se non svanire l’american dream: il sogno che ha conquistato generazioni, dal New Deal di Roosevelt alla Nuova Frontiera di John Kennedy allo “Yes, we can” di Obama, primo presidente negro degli Stati Uniti. Dopo la caduta del Muro di Berlino sembrò segnare il trionfo del modello occidentale, “la fine della storia”, e invece ha subito un brusco risveglio dallo choc delle Twin Towers. Eppure – ha scritto Vito Amoruso – “la storia americana è sempre un nuovo cominciamento”. Ed è stato il cinema americano, Hollywood, ad “esorcizzare la crisi di idee e di valori con una ostinata rivisitazione del passato recente e remoto”. Ha rielaborato “i temi moderni dello sradicamento, dell’uomo nella sua quotidiana erranza nel caos, della perdita di orientamento”. Ha fatto coincidere il Cinema come linguaggio delle immagini in movimento e forma simbolica della modernità con la nozione del Viaggio (reale e metaforico, nello spazio-tempo e nella coscienza): “l’unico luogo in cui tornare per una cultura basata sull’elogio dello sradicamento”. Così “il cinema di viaggio e il viaggio del cinema assumono il nitore di un canone americano”, fra archetipi e stereotipi.
Sembra questa, per sunti e citazioni, la struttura portante del nuovo libro di Oscar Iarussi Visioni americane – Il cinema “on the road” da John Ford a Spike Lee  appena edito da Adda (132 pagg,…euro). Si compone di due saggi, “Viaggio nel cinema americano” e “L’evidenza americana – Il cinema e l’11 settembre” uniti dall’apertura di obiettivo a tutto campo. Un metodo di indagine che oltrepassa la cinefilìa dello “specifico filmico” per tentare una ermeneutica di “sguardo sul mondo”: approccio collaudato con successo nel 2011 con il libro felliniano “C’era una volta il futuro - L’Italia della Dolce Vita” e col progetto “Frontiere”, la rassegna da lui ideata e diretta a Bari.
A dire cinema “on the road” la memoria corre subito al libro cult di Jack Kerouac (1957) che è stata la bibbia della beat generation. E certo a quel “ribellismo anarcoide”, alla “ricerca confusa ma tenace di un mondo altro, evanescente” si riconduce l’esperienza del road movie anni Settanta, fra l’Easy Rider 1969 di Dennis Hopper e Lo Spaventapasseri 1973 di Jerry Schatzberg, “metafora del vano fuggire”. Assume il senso largo di “viaggio nella coscienza espansa grazie alla droga, all’alcol, talora all’eros” come si vede in tanti capolavori del periodo, da Taxi Driver 1976 di Scorsese agli psicodrammi dei “reduci dal Vietnam” (Il Cacciatore di Cimino 1978, Apocalypse Now di Coppola 1979).  
Ma – avverte l’autore - il “cinema della crisi” ha partenze lontane. Dagli hobos, i “vagabondi della notte” di Jack London rivelati sullo schermo da Charlot, l’omino migrante su strade dell’addio “che non si sa dove conducano, un altrove”. Su questa cultura dell’addio come ripartenza si innesta la tematica del western come “cinema americano per eccellenza”. Non tanto come epopea della “conquista del West” (De Mille 1936) con i suoi sviluppi sino al crepuscolo fra critica e nostalgia (Peckinpah), ma come proiezione verso una Terra Promessa, il miraggio della frontiera e la ferita dolorosa del confine, la borderline. Da Furore, il film-manifesto di John Ford tratto dal romanzo di Steinbeck (1940),  la ricognizione si inoltra nel campo di diramazioni anche sorprendenti dal western come “metagenere”: i film di corsa e di fuga, di guerra e di fantascienza, di denuncia sociale e di identità eccetera. Con sbocchi di ultima fuga – diversamente drammatici - verso le “terre selvagge” (Into the Wild, Sean Penn 2007) e verso la frontiera metropolitana (Gangs of New York, Scorsese 2002). Sino allo smarrimento finale del marines nativo - americano reduce da Iwo Jima nel film di Clint Eastwood Flags of our Fathers (2006).
Su questo vanishing point  la prima inchiesta del libro, di respiro enciclopedico (la filmografia finale conta 190 titoli), si connette al secondo saggio che muove dall’attacco alle Torri Gemelle. E’ introdotto da una questione cruciale: il rapporto tra guerra e immaginario collettivo, la violenza come “spettacolo” mediatico, l’estetizzazione del dolore. Il cinema risponde ponendosi  come “esperienza del vuoto” (di cui è metafora Ground Zero) contrapposta al “troppo pieno” dei reality show, della realtà come videogame, e col “filmare da lontano” contro la distrazione- distruzione dello sguardo. Questa scelta etica prima che estetica era già presente in film dedicati all’11 settembre, come Fahrenheit 9/11 di Michael Moore e soprattutto nel toccante “corto” del messicano Inarritu nell’antologia cinematografica 11’09”01, col suo schermo spento (il “non visto” della tragedia secondo Derrida) e solo le voci di quel giorno. Ma la metafora di Iarussi stringe su La 25. Ora di Spike Lee, il film 2002 che segue l’ultima notte di libertà del giovane Monty prima di finire in carcere, un on the road urbano che parte proprio dal cratere delle Twins. Con questa “suite dell’addio” si  chiude il cerchio del labirintico viaggio nella mitologia americana. E’ suggellato dal sorriso ineffabile nel vuoto di Robert De Niro nella fumeria d’oppio inC’era una volta in America (1984) di Sergio Leone: “il nirvana dell’Occidente”.

lunedì 28 gennaio 2013

Chiara Fumai e Luigi Presicce due pugliesi in volo

 Chiara Fumai al premio Furla, Bologna 2013

Luigi Presicce, Il giudizio delle ladre 2013

E’ la “barese” Chiara Fumai (è nata a Roma nel 1978, ma a Bari dove vivono i suoi genitori ha vissuto e studiato da ragazza e ci torna spesso)  la vincitrice del premio Furla 2013, il più prestigioso concorso italiano per giovani artisti. La proclamazione è avvenuta venerdì sera a Bologna, con full immersion nel mare di folla convenuto per l’apertura di ArteFiera. Chiara ha avuto la meglio presentando un progetto tra performance ed installazione che ha al centro la figura di Valerie Solanas, la pasionaria che attentò nel 1968 alla vita di Andy Warhol. Come anticipammo nel novembre scorso, è un tema “anarco-femminista” già preannunciato nel titolo, “Valerie Solanas non è nata ieri”, della personale che l’artista tenne a Bari nel giugno del 2011 nella galleria Murat 122. Quella complessa mostra seguiva altre sue importanti presenze a Bari (nelle vetrine di Mincuzzi per Gemine Muse 2010, nel Margherita per il premio LUM 2011). La “dichiarazione di guerra” è stata radicalizzata a Bologna con frammenti di apparato visivo esposti nell’ex Ospedale degli Innocenti con le opere degli altri quattro concorrenti (Tomaso De Luca, Invernomuto, Davide Stucchi, Diego Tonus). Fra le scritte in mostra, uno degli slogan del movimento femminista SCUM , “A male artist is a contradiction in terms”. Come dire che l’arte non è affare per maschi. Il progetto comunque avrà piena realizzazione nel prossimo giugno con una mostra a Venezia  nella  Fondazione Querini Stampalia in occasione della Biennale 2013, poi “l’opera” passerà in comodato al MAMBO di Bologna. Nel pacchetto del premio è inclusa anche una residenza presso il Wiels Contemporary Art Center di Bruxelles. Lanciatissima, l’artista barese dopo il successo internazionale riscosso con la recente partecipazione a Documenta 13 a Kassel. Chiara è dovuta correre a Bologna lasciando una personale appena aperta a Praga. E nella sua agenda – ci confidò a Bari  – c’erano nell’immediato anche una performance a Parigi (Maison Rouge) e una mostra a  Mosca.
Dunque una affermazione nella quale – una volta tanto - sostegni non da poco sono venuti dalla Puglia. Ma conta notare l’originalità del contributo portato da Chiara Fumai alla crescita di un filone di neoconcettualismo visionario e performativo fra le tendenze generazionali che si vanno diramando in questo inizio di Duemila. In quest’ambito -  seppure in direzione diversa – si può collocare la crescita internazionale  di un altro pugliese di Milano, il salentino Luigi Presicce. Proprio a Bologna, sempre nell’ambito di Art City -  eventi curati dal direttore del Mambo Giuseppe Maraniello in occasione della fiera- ha tenuto (con Maurizio Vierucci) una performance - installazione dal titolo “Il giudizio delle ladre” nella quale voli di gazze ladre s’innestano sul tema del bacio di Giuda a Gesù rivisitato su citazioni visive dal Giotto della Cappella degli Scrovegni…Anche qui, anticipazioni e prefigurazioni di questa linea sono state proposte negli ultimi anni in Puglia, con diverse performances nel Salento e a Bari con la mostra “Back Home” in Santa Scolastica.


mercoledì 23 gennaio 2013

Il secondo "Giardino segreto" dei collezionisti baresi

AndyWarhol Ritratto di Mao 1973

Nicola Vinci L'ovulo 2001


Il ritratto di Mao è una delle icone di culto mediatico create da Andy Warhol. Il guru della Pop Art ne propose molteplici versioni serigrafiche su tela e su carta fra il 1972 e il 1974. Una di queste, del 1973, col volto del Grande Timoniere dipinto di blu, troneggia da oggi nel Castello Svevo di Bari per la seconda (e ultima) edizione de “Il Giardino segreto”, rassegna di opere d’arte contemporanea provenienti da collezioni private baresi. Ma alla fascinazione di Warhol si contrappongono due grandi pannelli in tela eseguiti nel 1971 da Robert Mangold, uno dei pionieri del minimalismo americano: col rigore monacale di fondi bianchi su cui s’incrociano a matita nera due diagonali, quasi squadrature di un foglio da disegno gigante. Mentre del 1973 è un fantasmatico disegno-oggetto col quale il bulgaro-francese Christo accompagnava il progetto di avvolgere in teloni bianchi le Mura Pinciane a Roma. Nello stesso 1973-74, l’italo-argentino Antonio Trotta volgeva il concettualismo in raffinatezze di arte antica intarsiando un’ombra umana nelle venature del marmo di Carrara.
Si può tentare di leggere anche così, partendo dalle poche opere dei mitici anni Settanta, la complessità delle avventure dell’arte dell’ultimo mezzo secolo. Tenta di inseguirne le sparse ricadute sul territorio la ricerca promossa diversi anni fa dall’Accademia di Belle Arti di Bari. Nel 2011 il progetto prese corpo con la mostra di una settantina di opere negli spazi di Santa Scolastica. Se ne aggiungono ora 57 di altrettanti autori, stranieri e italiani con una più cospicua rappresentanza di pugliesi: una dozzina, mentre due anni fa erano sei. Per opportuna attenzione a qualità espresse dal territorio o per ragioni…diplomatiche, non conta - se non si vuole scadere nel gossip. Del resto – come nel 2011 - il segreto del Giardino copre i nomi dei 16 prestatori (siamo fra l’altro in tempi di redditometro) e di conseguenza le modalità di ricognizione e scelta delle opere.
Impraticabili quindi riflessioni pertinenti su storia sociale o del gusto o su questioni di politica culturale, converrà concentrarsi sulle offerte d’arte che si allineano a parete (quasi tutte) su lunghe pannellature bianche nelle due sale superiori del castello. Questa volta la mostra è articolata non per soggetti o temi ma in quattro gruppi generazionali, dai più anziani - i nati a  ridosso della seconda guerra mondiale - ai più giovani. Con accenni a percorsi anche storici, pur nella frammentata varietà dei linguaggi. Fra Ottanta e Novanta si colgono i piaceri ritrovati del colore in vari modi postmoderni: transavanguardia (De Maria, Chia, Paladino), “nuova scuola romana” (Ceccobelli, Dessì, Nunzio, Gallo), nuovo aniconismo (Tremlett, Brown, uno splendido Schuyff). Sfuggono agli schemi l’ironia e la fantasia dei grandi italiani Schifano, Boetti, Ontani. Una rarità è l’acrilico dalla serie “Coney Island” 1988 dell’americano Donald Baechler, sortito dal graffitismo con ironia infantilista. Si sottraggono alle mischie del tempo le prove tarde di protagonisti solitari di storie precedenti, dalla tramata tensione su superficie bianca di un Castellani 1990 alle macchie impetuose di un Nitsch 2000.
Interessante è la varietà di incursioni nell’area delle nuove generazioni segnate nei Duemila daimixed media, riproducibilità e manualità tenute insieme da un realismo stravolto o da un concettualismo fantastico. Esempi più intensi in mostra la zumata post-pop del danese Thorsten Kirchoff su un volto di donna che ha per iride una ventola girevole al soffio, la foto digitale con corpi volanti del cinese Li Wei, la misteriosa donna incartata dal tedesco Thorsten Brinckmann, le piccole insegne luminose di Susanne Kutter, anche lei spuntata dal nuovo avamposto europeo dell’arte, Berlino. Rispondono parecchi autori italiani emergenti. Di alcuni come Ra Di Martino, Goldiechiari, Marinella Senatore si è scritto in occasioni recenti. E più volte ci siamo occupati dei bravi giovani pugliesi che con loro dialogano in autonomia creativa, Cristiano De Gaetano, Raffaele Fiorella, Giuseppe Pinto, Nicola Vinci. Addirittura sono fuori di conto le pagine dedicate negli anni agli altri un po’ meno giovani corregionali: Carone, Corbascio, Gadaleta, Iurilli, Maggiulli, Pagnelli, Ruiu, Sylos Labini. Tutti diversamente impegnati in par condicio nelle sezionimeed-career senza ghetti territoriali, tutti ben noti al pubblico dell’arte. Valga per tutti la festa per la conquista del Castello.


* Si inaugura oggi alle18 nel Castello Svevo di Bari la mostra “Il Giardino segreto – Opere d’arte dell’ultimo cinquantennio nelle collezioni private baresi. Seconda edizione” a cura di Lia De Venere con la collaborazione di Antonella Marino. Resterà aperta sino al 24 febbraio. Orari: 10.30 – 19.30, chiuso il mercoledì. Ingresso (al castello) 3 euro, ridotto 1,5. Info: tel. 080 5286216

domenica 20 gennaio 2013

MARIO CRESCI in "FORSE FOTOGRAFIA"





Giovedì 17 gennaio 2013 Al LABORATORIO DEL MUSEO DELLA FOTOGRAFIA DEL POLITECNICO DI BARI
Ha presentato la conferenza il direttore del museo Pio Meledandri
Antonino Di Guardo direttore Generale del Politecnico per il triennio 2012-14
Pietro Marino Critico d'Arte e giornalista
Marta Ragozzino Soprintendente per i Beni Storici Artistici Etnoantropologici della Basilicata
Forse Fotografia è il titolo del libro dedicato a Mario Cresci, fotografo, grafico, artista contemporaneo.Egli utilizza l'obiettivo come mezzo per indagare le trasformazioni della società, con intento oggettivo, che tutto porta in primo piano, consentendo nel contempo il confronto, alla ricerca dell'analogia della forma e quindi del contenuto. In questi termini Cresci è un geniale precursore che ha avviato, sin dagli anni Sessanta, processi di ricerca e costruito modelli concreti di riferimento come fotografo, grafico e moderno interprete della cultura figurativa contemporanea."

Dalla pubblicazione a cura del Servizio architettura e arte contemporanea Direzione Generale PaBAAC - Maria Grazia Bellisario
Mario Cresci Forse Fotografia formato cm. 21x29,7 pagine 128 Il libro è pubblicato dall'Editore Allemandi di Torino ed è a cura di Luigi Ficacci e Marta Ragozzino sotto l'egida del MiBac, Ministero per i Beni e le Attività Culturali
 

Brancusi nascosto nella Natura: la "fotografia diretta" di Edward Weston

    Weston, Nude 1934

Weston, Dunes 1936


Un peperone fotografato in bianco e nero che assomiglia al corpo palestrato di un lottatore, o ad una statua di Rodin. E’ una delle icone di culto nella storia della fotografia e famoso ne è l’autore, Edward Weston. Negli anni Venti-Trenta del secolo scorso il grande americano (1886-1958)  si fece protagonista di un modo nuovo di “pensare per immagini”. Propugnò la straight photography, la “fotografia diretta” che rinnegava il “pittorialismo” di primo Novecento. “La fotografia deve essere fotografica”, sosteneva (cioè non deve essere ancella o concorrente dell’arte). La camera deve “registrare la vita, la vera sostanza e la quintessenza delle cose in sé, si tratti di lucido acciaio o di carni palpitanti”. E nudi di statuaria bellezza plastica, metafisiche  strutture di fabbriche, dune come corpi e nuvole come montagne, verze e funghi che sembrano organi sessuali si susseguono con implacabile evidenza volumetrica nella mostra curata da Filippo Maggia che dalla Fondazione Unicredit per la Fotografia di Modena è passata  - sino al 17 febbraio - nel CIAC (Centro italiano arte contemporanea) di Foligno, emanazione della locale Cassa di Risparmio. Unico è il catalogo, un elegante volume edito da Skira (150 pagine, 40 euro) che riproduce tutte le 110 fotografie in esposizione.
Furono scattate dall’inizio degli anni Venti alla soglia dei Quaranta: il periodo fondamentale e fecondo di Weston, che dal 1948, colpito dal morbo di Parkinson, smise di fotografare, dedicandosi con l’aiuto dei figli avuti da donne diverse a ristampare e pubblicare la sua produzione di immagini (per i Project Prints selezionò nel 1952-55 un corpus di 832 foto). La svolta “realista” avviene nel 1922 quando Weston dalla nativa Chicago va a New York e vi incontra il pioniere della fotografia moderna Alfred Stieglitz e la già famosa pittrice Georgia O’ Keeffe. Nel 1923 va nel Messico rivoluzionario con un’altra celebrata fotografa, Tina Modotti che diviene sua amante. Insieme mettono a punto un metodo che punta sulla ripresa ravvicinata di persone e oggetti in primissimo piano con luci perfette. Tagli di inquadrature condotte a nitidezza assoluta di incisione grazie alla stampa a sali d’argento, con effetti di realismo epico che nella sua evidenza monumentale si porta sul limite dell’astrazione plastica.
E’ il percorso che da allora in poi Weston, stabilendosi in California, conduce  a risultati di irripetibile virtuosismo. Messo a punto anche a livello teorico con la fondazione nel 1932 del gruppo “f/64” con Ansel Adams, Imogen Cunningham e altri: nel simbolico numero di diagramma si concentrava il canone formale della messa a fuoco ideale e della stampa per contatto su carta lucida. Weston la applicò anche quando, nel 1933 partecipò al programma rooseveltiano della Farm Security Administration. Ma non si occupò di soggetti sociali come altri grandi colleghi, Dorothea Lange, Walker Ewans. Solo ritratti di singoli personaggi, comprese mogli e amanti, e ancora visioni di natura dopo il ritiro a Point Lobos: le dune di sabbia dei deserti, le rocce e gli alberi dello Yosemite Park, le spiagge oceaniche di Carmel.
Tra cultura del realismo magico e purismo, lontana dalla pratica del reportage come dalla poetica bressoniana del “momento fermato”, la fotografia di Weston si consegna a noi,  nel tempo del colore e della finzione digitale, con la suggestione di un felice paradosso, di una intrigante ambiguità. Voleva affermarsi come “espressione vitale della contemporaneità”, ci ha rivelato la Forma senza tempo nascosta nella Realtà. “Ho provato – scrisse orgogliosamente nei suoi Diari – che la Natura ha in sé tutte le forme (semplificate) che Brancusi o qualche altro artista potrebbe immaginare”.

mercoledì 16 gennaio 2013

Mario Cresci, non solo Fotografia






Forse Fotografia. Perché Mario Cresci, uno dei fotografi italiani più famosi, ha voluto dare questo titolo dubitoso alla sua impresa recente, le tre mostre con interventi site specific realizzate fra novembre 2010 e gennaio 2012 in altrettante istituzioni pubbliche prestigiose, la Pinacoteca nazionale di Bologna, l’Istituto nazionale per la Grafica di Roma e il Museo nazionale d’arte medievale e moderna di Matera? La risposta, anzi le risposte stanno nel libro edito da Allemandi che porta lo stesso titolo. Se ne parlerà domani a Bari con l’autore, dopo la presentazione a Matera nel settembre scorso. Già recensendo in giugno l’ultima tappa del tour, quella in Palazzo Lanfranchi, segnalavo  le inquietudini che da sempre governano la fotografia di Cresci (magari accresciute sul varco dei 70 anni), i suoi percorsi spiralici e labirintici che procedono per misurazioni, rispecchiamenti, spiazzamenti. Per “analogie, simmetrie e contrapposizioni”, scrive nel suo intervento in volume.
Svolge “fra sperimentazione e dubbio” l’impresa di portare un’immagine “dall’invisibile al visibile” (titolo del workshop che inizia venerdì, un po’ citando Paul Klee ). Per lui la fotografia è solo uno dei mezzi – fondamentale, certo – di un sistema comunicativo che include il disegno (sin dagli studi giovanili di design a Venezia) ed anche installazioni. Attitudine esaltata nelle tre mostre con modalità diverse, anche spettacolari: cercando e rivelando relazioni con gli spazi museali e con le icone dell’antico, rielaborando “il tempo della memoria”.
La singolarità della esperienza di Cresci, che la rende un caso forse unico nella fotografia contemporanea italiana, sta proprio nella varietà delle procedure di smontaggio-rimontaggio delle immagini per dedurne una libera “sintassi” creativa. Un po’ come Ugo Mulas nelle storiche  “verifiche”, intende il medium fotografico come “decostruzione” del visivo (termine che ricorre da Derrida a Rosalind Krauss): metodo di analisi che rinnova di significati i reperti del reale. Lui stesso cita le tavole della Enciclopedie illuminista, ma vengono in mente anche le incisioni piranesiane. Proprio da Piranesi ricava alcune delle operazioni compiute col disegno nella mostra a Roma: frottages, “copie di copie”, calchi, che non solo estraggono “tracce” dagli strati del passato ma ripassano graficamente anche la storia della fotografia.

Insomma Cresci è un “archeologo o ecologo del segno”, suggerisce con felice metafora Marta Ragozzino, la soprintendente di Matera che ha curato il volume con il collega di Bologna Luigi Ficacci. Potrebbe dirsi un anatomista, anche. Pensando alle operazioni compiute in Palazzo Lanfranchi, quasi un “ospedale dell’arte”: con estrazioni visive di seni, mani, ferite dal corpo dei santi, con bende di carta velina squarciata posate sui volti dei personaggi di Carlo Levi. E un foro slabbrato nel muro - quasi una piaga o piega deleuziana - è la fotografia in copertina di libro. Un coerente “libro d’arte” con la sua fascinosa sintassi di testi e immagini che non riguardano solo le mostre da cui ha origine. Propongono la coerenza del lavoro dell’autore anche col tempo in apparenza diverso e lontano della permanenza a Matera negli anni Settanta-Ottanta e dei fecondi rapporti con Bari. Le ricerche compiute tra la gente lucana, tra gli oggetti della cultura materiale, nella case e nelle cave sono per lui anticipazioni di un percorso compiuto in un “tempo circolare” (Roberta Valtorta). Nell’approccio semiologico il rigore formale dell’analisi in luce fredda e nitida è riscaldato da una tensione “attraverso l’umano”, dal bisogno di  relazioni creative “socialmente utili”. Perché – scrive Goffredo Fofi in apertura di libro – la sfida e la ricerca incessante di Mario Cresci vuole sì collocarsi nel tempo, ma “il tempo profondo e decisivo”. Per comprenderlo e superarlo “negandone le apparenze e le finzioni, cercando un nuovo tempo”.
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* Viene presentato domani giovedì 17 gennaio alle 17.30 nella sala conferenze del Politecnico di Bari (via Amendola 126/B) il volume “Mario Cresci – Forse Fotografia”. Intervengono, con il celebre artista, il rettore del Politecnico Nicola Costantino, Marta Ragozzino Soprintendente ai Beni storici e artistici della Basilicata e il critico d’arte Pietro Marino. Il volume è edito da Allemandi per la cura della Direzione generale del Ministero dei Beni Culturali, Servizio architettura e arte contemporanea. L’evento è promosso dal Laboratorio del Museo della Fotografia del Politecnico diretto da Pio Meledandri.

giovedì 10 gennaio 2013

Angelo Savelli, il "maestro del bianco" riscoperto dal MARCA di Catanzaro


“C’è il Savelli che su irreali stipiti e battenti di assurde porte candide crea astratte magìe di occhi luminosi”. Così scrivevo nel remoto 1964 con stile ingenuamente immaginifico recensendo per la “Gazzetta” la Biennale di Venezia, a proposito di un artista di cui avrei perso le tracce dopo gli anni Ottanta. Era quell’Angelo Savelli che ora il MARCA di Catanzaro recupera ed esalta come il “maestro del bianco” con un’ampia retrospettiva assai opportuna. Rende doveroso omaggio ad un artista della sua terra (era nato a Pizzo Calabro nel 1911, morì nel 1995 in quel di Brescia). Ricostruisce un tassello significativo della storia di quegli anni “formidabili” (per dirla con Mario Capanna), il quarto di secolo tra fine Cinquanta e i Settanta nel quale ribollirono le neoavanguardie del secondo Novecento. Esemplare dei frenetici mutamenti del tempo è la vicenda di Savelli. Venuto a studiare in Accademia a Roma nel 1930, pratica una pittura “figurativa” con inquietudini espressioniste nell’aria di Scipione, con l’amico Guttuso e nel gruppo dell’Art Club. Nel 1948 va a Parigi e rimane folgorato dall’astrattismo, che riporta a Roma con dinamismi post-futuristi alla Prampolini accostandosi ad Afro e Burri. Nel 1953 sposa a Roma una giornalista americana e con lei va a New York. E tra qui, Filadelfia e altre residenze nell’area atlantica degli States resta a vivere, lavorare ed insegnare per oltre trent’anni, pur con frequenti ed intensi rapporti con l’Italia dove tornerà a trascorrere gli ultimi anni.
Dal contatto con l’espressionismo astratto dei nuovi amici americani - Barnett Newman su tutti - e degli italiani d’America (Scarpitta, Marca Relli) la sua pittura assume consistenza materica ed energia gestuale. Dal 1957 esplode la passione per il Bianco che già covava in lui. Come dimostra il primo quadro Fire dance, uno dei molti pezzi rari e pregiati della mostra curata da Alberto Fiz direttore del MARCA e da Luigi Sansone, provenienti da musei e collezioni importanti. Allora il culto del Bianco dilagava per il confluire di diverse motivazioni. L’assolutezza minimalista (Reinhardt, Agnes Martin) l’ azzeramento concettuale - oggettuale (Manzoni, Castellani) lo sfondamento dello spazio (Fontana) l’esistenzialismo zen (Klein) la finzione onirica (Pascali). Ma per nessuno il Bianco fu una scelta radicale e un culto assoluto come per Savelli. “Io vedo con occhi bianchi/io penso con bianca mente/ io agisco con bianche mani in un bianco corpo….” proclama in una poesia del 1959 che è un vero inno al Bianco come religione interiore, espansione panica nello spazio infinito, “eterico” dice lui.
Una modalità di pittura lirica mistica e cosmica che presto riconosce il suo vero precedente storico nel suprematismo di Malevic, autore nel 1919 del Quadrato bianco su fondo bianco. Al maestro russo si ispirano esplicitamente le composizioni degli anni fra i Settanta e i Novanta con ritagli di quadrangoli e triangoli irregolari e volanti in sequenze ed incroci, sino ai cerchi dei Novanta. Ma la fase più fortunata e famosa è quella dei Sessanta, segnati appunto dalla sala nella Biennale del 1964 per la quale ottenne il primo premio “per la grafica”. E’ il tempo in cui Savelli abbandonando rilievi dinamici  alla Scarpitta, innalza pannelli di essenziale geometria solcati da corde tese in scanalature che “disegnano” strutture primarie spesso scavate da più cerchi, che io lessi come metafisici stipiti ed occhi. Metafisica oggettuale con citazioni classiche, mentre fu Newman a suggerire all’artista il titolo Dante’s Inferno per una struttura- scultura del 1964-69 che sa tanto di arte minimal. Invece le corde e gomene ritorte – che Savelli lega a memorie delle marine calabresi – assumono talvolta poderosa autonomia plastica, anche in riprese tarde del 1993-94. Frequenti le sculture astratte in lamiera, rare le installazioni come la “Stanza Luce” ricostruita nel MARCA sulla base del progetto lasciato nel 1992 al museo civico di Taverna.
Perché poi un artista così stimato da colleghi e critici autorevoli sia scivolato in lungo oblìo è questione complessa. Giocò certo il suo spirito libero (rifiutò persino un contratto con Leo Castelli). Ma non fu l’unico ad essere risucchiato nel vortice di una cultura che pur da campi opposti liquidava il culto della Forma e della Trascendenza. Mentre lui andava “affogando giorno per giorno in una eco senza colore” (dattiloscritto del 1965, forse). 

*La mostra “Angelo Savelli – Il maestro del bianco” è aperta nel MARCA di Catanzaro (via Alessandro Turco 63) sino al 30 marzo 2013. Orari: 9.30 -13, 16 -20.30. Ingresso 3 euro. Info: tel. 0961746797, www. museomarca.

giovedì 3 gennaio 2013

Il labirinto "da domani" di Raffaele Fiorella



Uno dei più interessanti talenti della nuova generazione di artisti  in Puglia è il barlettano Raffaele Fiorella, classe 1979. Si è affermato come autore di minimali videoinstallazioni con raffinati giochi tecnici di animazioni e sdoppiamenti che evocano con trasognato intimismo ed umbratile grazia situazioni di distaccata, misteriosa quotidianità. Si sta facendo conoscere anche fuori d’Italia (recente una residenza a Pechino). Ora, importante nel suo percorso è il vasto complesso installativo da lui realizzato a Barletta, nel capannone di un’azienda nell’area industriale, la Base Protection. Ha inventato un percorso labirintico immerso nel semibuio, innalzando con 600 scatoloni d’imballaggio muri contro e dentro i quali si dispongono diverse apparizioni a sorpresa.

Una serie di post-it elettronici su cui degli appunti si sovrappongono a video di esterni in movimento; un teatrino nel quale l’ombra di un inserviente fa pulizie dopo una rappresentazione lirica, ma cantando; due pozzetti al fondo dei quali scorgiamo scorrere cielo e mare; tre videosculture con statuine di personaggi immobili che contemplano dall’interno di ambienti chiusi - siano carcere o stanza domestica – la vita di natura all’esterno; una grande parete curva illuminata da 33 finestrelle (quanti i suoi anni) dietro le quali si intuiscono azioni di vita quotidiana; infine una Grande Esplosione proiettata in grafìa nera di frammenti di oggetti e di natura che volano, si librano in surreale assenza di gravità. Il filo nel labirinto è dettato dal titolo della mostra, “Da domani”: ”allegoria  – suggerisce il curatore Roberto Lacarbonara – di un domani indefinibile, imprevedibile, con i suoi vicoli ciechi e le sue svolte”
Peccato che l’evento abbia vita brevissima, dal 3 al 6 gennaio, per le esigenze lavorative dell’azienda (fabbrica “calzature professionali di sicurezza”) che pure si distingue - segnala il dirigente ingegnere Michele Lacerenza - per il sostegno a progetti sociali e culturali. Ne resta traccia indiretta in un elegante libretto a tiratura limitata curato dai locorotondesi  Antonio Lillo e Roberto Lacarbonara. Raccoglie brevi pensieri sul “da domani” di una ventina di amici intellettuali, scrittori, persone comunque con interessi culturali: con tonalità fra speranza e disincanto, fra distacco ironico e slancio sentimentale. Fulminante quello di Enrica Simonetti: “Aprirò una redazione nel Terzo Mondo”. Un repertorio agrodolce di testimonianze problematiche che ci toccano in questo avvìo di anno nuovo. Le commentano i disegni volanti di Fiorella, con fantasia fredda e nitida come l’aria del nostro inverno dei pensieri e delle emozioni. 
In via Unione Europea 61, ore 17-21. Info: tel. 0883 34817, email a.lacerenza@basepro.it