giovedì 18 luglio 2013

"Spiaggia libera" ma non troppo per 13 artisti nostrani


“Spiaggia libera” è titolo piuttosto spiazzante, per una mostra d’arte che si tiene (insolitamente) in uno stabilimento balneare superdotato di accessi e servizi a pagamento. In effetti  i tredici artisti pugliesi che da stasera espongono nell’elegante Coco Beach Club a Marina di Cozze aspirano a portare un “pensiero divergente” fra le cabine, i pontili, la piscina, il bar, gli accoglienti spazi aperti e chiusi del complesso disteso sugli scogli con candori di legni e di teli e tocchi di azzurro. Ma “incontri e inciampi” (cito dal catalogo) avvengono con leggerezza portata sino alla discrezione. Qualche inquietudine possono procurarli ai bagnanti i fogli di acetato che Pierluca vuole far galleggiare in piscina, con su disegnati profili di corpi che “fanno il morto” – o sono morti davvero? Apparizione fantasmatica è la “finestra marina” di Raffaele Fiorella che dovrebbe accendersi in videoproiezione all’estremità di un pontile – se il telo resisterà a vento e onde. Attende il calar delle tenebre per rivelarsi nella sua interezza, la scritta misteriosa composta da Pamela Campagna su una staccionata: “Quando il giorno” (in vernice fosforescente) “incontra la notte” (in caratteri di adesivo nero). Recidivo in sberleffi è Gianmaria Giannetti, autore di un video nel quale si esibisce travestito da geisha su fondo musicale da Gino Paoli, e non chiediamogli perché.
Declinano sul poetico gli altri interventi. Due barchettine di pescatori sovrapposte a comporre una specie di valva o gheriglio confermano le fantasie metamorfiche di Giuseppe Teofilo.  Ispirano tenerezza precaria i legnetti  passati di bianco e raccolti pietosamente sotto teca al cospetto del mare dal sedicenne Davide Partipilo, ancora studente di Accademia. Una new entry la sua: come piace ad Elisabetta Longo e Gaetano Gagliardi, la coppia titolare della Beluga Gallery di Rutigliano che ha promosso l’evento con il sostegno del titolare del Coco, Gianfranco Chiarappa. Da loro ha esordito mesi fa anche Chiara Gatto, 23 anni: la paretina interna di una cabina è location ideale per accogliere la grazia sghemba, di minimale surrealismo, del suo quadretto con terrazza assolata su cui fugge un gatto. Ha invece voglia di farsi largo Stefano Romano, 20 anni, con un’altra prova di “concept art”, ovvero il design visionario sul quale si va applicando a New York. Non hanno bisogno di collaudo la visionarietà animistica della medusa acquerellata da Pierpaolo Miccolis, il realismo ambiguo della coppia di bimbi dipinta Jara Marzulli, i fini disegni di giochi di Aldo Berardi, il naturalismo astrattivo delle foto di Ombretta Favino.
Sovrasta il tutto la scritta al neon di Daniela Corbascio: “Sud” con tanto di freccia puntata verso il Canale d’Otranto, a sostenere senza esitazioni la direzione identitaria dell’evento. 
Sino al 25 agosto, tutti i giorni dalle 8.30 a mezzanotte, sul Lungomare Zara 35. 
Per info: cell. 3318429862 (Coco Beach) 3475495188 (Beluga).

giovedì 4 luglio 2013

La Street Art e Bari: come quando perché, appunti per pensarci su

sten & lex ex standa corso vittorio emanuele

erica il cane e blu liceo socrate via fanelli

ozmo al chiringuito

Da un po’ di giorni una vasta operazione di Street Art investe diversi edifici e spazi pubblici di Bari, fra curiosità della gente sollecitata anche dall’eco mediatico di disparate reazioni polemiche: non dal pubblico in verità, piuttosto da politici e amministrazioni. Non fanno scandalo infatti i soggetti degli interventi eseguiti da sei giovani autori italiani e stranieri, ben noti nel giro nomade della pittura murale, per un progetto promosso dalla galleria barese Doppelgaenger e sostenuto con entusiasmo straripante dal sindaco Emiliano. L’ampiezza del progetto ha il merito di richiamare l’attenzione sul muralismo come espansione spettacolare e sviluppo professionale della street art originaria, quella spontaneista dei writers ovvero graffitisti. I quali proliferano nelle nostre città come in tutto il mondo, continuando a praticare in forme e stili diversi illettering esploso da mezzo secolo ormai: da quando i ragazzi dei ghetti di New York cominciarono ad attaccare con pennarelli e bombolette treni e stazioni delle subways, apponendovi le loro firme in codice, le tag come messaggio trasgressivo ed effimero di liberazione identitaria. Ancora oggi l’opinione pubblica e le autorità stentano a distinguere gli ideogrammi vivaci ma ormai autoreferenziali di volenterosi figli della borghesia dagli sfregi vandalici degli imbrattamuri, che sono poi la grande maggioranza. C’è qualche vago tentativo pubblico di mettergli a disposizione spazi di sfogo in aree di periferia, ma i duri e puri non ci stanno a snaturarsi.
Il virtuoso muralismo dei “fresh flaneurs”di Bari (titolo della operazione Doppelgaenger) esprime invece l’ala socialmente vincente della street art. Ha preso il largo dalla fine dei Settanta, da quando alcuni graffitari furono fagocitati dal sistema capitalistico dell’arte, gallerie, aste, fiere, festival. Straordinarie storie personali - Basquiat adottato da Warhol nella sua Factory, Keith Haring assunto da Tony Shafrazy - hanno favorito l’attrazione per gli stilemi street, passati dai muri delle città al sistema del merchandising e del look giovanile postpop, dalle tshirt agli zaini, per dire. Per parte sua, l’arte sui muri urbani è divenuta produzione di immaginario postmoderno che attinge disinvoltamente alle diverse tradizioni della pittura, realismo popolare, astrazione colta, iconismo mediale, phantasy. Pittura a cielo aperto felicemente provvisoria e programmaticamente superficiale, praticata da autori che delle origini trasgressive hanno mantenuto solo la convenzione del nome in codice e magari ogni tanto qualche multa che fa parte del gioco. Gioco portato a metodo coerente da Banksy, l’eccellente street artist inglese divenuto famoso per la carica ironica e critica delle sue scene; ma soprattutto perché ancora adesso non rivela la sua identità, opera o finge di operare clandestinamente, non si lamenta se i suoi stencil sono cancellati o strappati dal muro. Così la  popolarità cresce, le vendite volano in rete e nelle aste.
Anche i bravi street artists convenuti a Bari vendono: sui loro siti web o esponendo in galleria, contando sull’effetto – trailer dei murales. Ma i promotori dell’evento puntano più in alto. Vorrebbero rendere permanenti le installazioni, altrimenti destinate a cancellazione entro 120 giorni al massimo. Però a questo punto il gioco cambia, e di parecchio. Perché gli spiazzamenti linguistici e i parti di libera fantasia visiva diverrebbero opere di arte pubblica. Cambierebbero ruolo e significato, richiamerebbero il problema della responsabilità sociale dell’arte. Molte stagioni del muralismo si sono nutrite di impegno sociale e politico – dal Messico della Revoluciòn al New Deal rooseveltiano sino alla sessantottesca Immaginazione al Potere. Invece le immaginose figurazioni sui muri di Bari ambiscono a farsi arredo urbano per godimento retinico, esperienza “decorativa” (nel senso di “conferire decoro” agli spazi), museo di sorprese visive a cielo aperto per la meraviglia di flotte di crocieristi. E’ l’idea che piace al Sindaco, molto meno alle Soprintendenze. Si può anche fare. Ma avvertendo che lo spirito alternativo dell’ “arte di strada” è migrato altrove. Aleggia in diversi percorsi di arte pubblica di nuovo genere, multimediali, relazionali, partecipativi, anche virtuali. Ma questo è già un altro discorso, un altro orizzonte.
PIETRO MARINO
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Non mancano di vitalità le opere di street art eseguite a Bari dai sei autori invitati per il progetto “Fresh Flaneurs”, tutti molto noti nel loro ambito. Lo spagnolo Sam3 ha quasi trasformato in timpano di tempio classico il frontone dell’abbandonata caserma Rossani sagomando in liquida vernice nera un accumulo crescente di corpi umani. Il milanese Ozmo  ha nobilitato una vasta nicchia dell’inquinato sottovia di Quintino Sella come fosse una cripta basiliana o un catino absidale, dipingendovi con tempere e bombolette (e con un bel po’ di ironia) un trittico su San Nicola barese, ortodosso, Santa Claus. Un altro suo spiritoso medaglione ghigna sul Chiringuito. Il duo romano-tarantino Sten&Lex è quello che ha suscitato i più alti clamori, rivestendo di strisce nere a zigzag e losanghe – con la tecnica dello stencil -  l’intera anonima facciata dell’ex edificio della Standa su corso Vittorio Emanuele. Interessante l’effetto optical di distorsione dinamica delle pareti, meno credibile la dichiarata ispirazione alle fasce bicromatiche del Duomo di Orvieto. Di elegante astrazione è il “fregio” volante sul palazzotto Eaap in piazza Diaz del piemontese 108 (aveva già esposto da Doppelgaenger due mesi fa). Lì stesso dovrebbe cimentarsi il francese El Tono. Gli spiritelli grotteschi del terzetto belga Hell’O’Monsters animano la ex scuola Verga a Japigia.
Sarà il caso di ricordare, nella città senza memoria, che il muralismo in spazi pubblici non è fenomeno nuovo nemmeno per Bari. Da anni un murale dipinto da Erica il cane e da Blu avvolge con fantasia tenera l’edificio del Liceo Socrate in via Fanelli. Il Comune che ha opportunamente messo a disposizione i ponteggi dell’AMIU per consentire a Sten&Lex di stendere le loro vibrazioni in bianconero potrebbe anche decidersi a proteggere le vibrazioni cromatiche del wall drawing di Sol Lewitt nella vicina Sala Murat. Del resto in Puglia da cinque anni si tiene a Grottaglie un Fame Festival internazionale di street art frequentato da validi artisti. Ma quasi nessuno sa della sua esistenza, e nemmeno nel paese dei vasai sembra molto amato.  (p.mar.)

L'arte degli italiani alla Biennale di Venezia: la calma dopo la tempesta . Con un po' di Puglia, anche...

Francesco Arena -Massa sepolta, 2013

Flavio Favelli - La Cupola 2013

Luigi Ghirri - Alpe di Siusi, 1979

Chiara Fumai -I did not Say or Mean Warning, 2013


Ritorniamo a Venezia. Per uno sguardo più attento al Padiglione Italia che rappresenta ufficialmente il nostro Paese nella 55. Biennale d’arte contemporanea. Lo fa con 14 artisti selezionati da Bartolomeo Pietromarchi, direttore del MACRO, il Museo comunale d’arte contemporanea di Roma. Fra loro c’è l’unico “pugliese di Puglia “, il brindisino Francesco Arena (classe 1978) che vive a Cassano Murge. Si è affermato fra gli autori di nuova generazione che praticano un neoconcettualismo rivolto alla rielaborazione linguistica di eventi della storia recente. Nell’Arsenale ha installato quattro cassoni blindati come “torri” alte 7 metri ripiene di terreno. Non si vede all’esterno, il peso complessivo corrisponderebbe a quello del corpo dell’autore moltiplicato per il numero delle vittime sepolte in fosse comuni durante quattro episodi di guerre civili del Novecento, in Spagna, Italia, Bosnia e Kosovo. La freddezza analitica è il metodo col quale l’artista distanzia in implacabile allucinazione l’impatto emotivo delle storie. Esemplare la cassa che ricostruiva la cella di Aldo Moro, 2004. Qui il suo straniante minimalismo risente di qualche eccesso di inerzia monumentale. Anche per la contiguità con la coinvolgente performance di una ragazza che lentamente si spoglia della divisa di giovane fascista per ostentare la sua liberata nudità: remake di una storica performance 1973 dello scomparso Fabio Mauri, “Ideologia e Natura”, con la quale la “Massa sepolta” di Arena è stata accoppiata sul tema Corpo –Storia.  
Infatti la rassegna curata con ricerca sin troppo diplomatica di equilibri linguistici e generazionali da Pietromarchi scandisce le quattordici presenze in sette “ambienti” su temi duali sin dal titolo, “Vice Versa”. Lettura di “categorie italiane” che riprende ed estende gli schemi dialettici suggeriti per la letteratura da un noto saggio 1996 di Giorgio Agamben, riedito da Laterza nel 2010. Dove polarità come tragedia e commedia, lingua colta e lingua popolare, orfismo e lirismo si tengono in tensione ambivalente, quasi facce di stesse medaglie. Con  attitudine alla mediazione formale, se non al compromesso, che stenta ad affermarsi nel confronto con le “geopolitiche dell’arte” (Dantini 2012) dominanti nella postmodernità occidentale.
 “Vice Versa” prova a risalire la china (fattasi rovinosa dopo il caos sgarbiano del 2011) puntando sulla qualità complessiva dell’offerta e su alcuni nomi di acquisita autorevolezza identitaria. Come Mauri appunto e un altro grande scomparso, Luigi Ghirri. Del celebrato fotografo è rilanciato lo storico “Viaggio in Italia”, la rassegna da lui curata nella Pinacoteca di Bari nel 1984 con i “nostri” Gianni Leone ed Enzo Velati. Si è scritto tante volte della sua importanza: come rivelazione di un diverso “paesaggio italiano” e come  svolta nella cultura dell’immagine. Va ricordato il contributo barese a quella operazione. Anche perché oltre alla cospicua parte di immagini di Ghirri, figurano in mostra diverse fotografie anche dei baresi Gianni Leone e Carlo Garzia e di altri protagonisti a noi vicini come Mario Cresci. Un sentore di Puglia popular promana infine dalla maestosa cupola di cassarmonica prelevata in Salento da Flavio Favelli: l’artista tosco-emiliano l’ha montata nel padiglione proseguendo nella ricomposizione di frammenti della memoria personale e collettiva.
Fra i viventi di vecchia generazione, tengono botta il 98enne Baruchello con una installazione di levità pensante e il settantenne Giulio Paolini con le sue inquietudini formali. Non al meglio della forma, su opposti versanti, i midcareer Marco Tirelli con una parete di repertori figurali e Massimo Bartolini.con un accidentato sentiero di bronzo. Elisabetta Benassi non scherza per concettualismo archivistico con un forte pavimento di diecimila mattoni fatti con terre ex alluvionate del Polesine su cui sono incisi i codici di riconoscimento dei frammenti spaziali NASA. Mentre Luca Vitone diffonde nell’aria sentori di essenze di rabarbaro per evocare le pestilenziali polveri dell’eternit di Casale Monferrato. E sembrano avere “braccino corto” - come si dice nel tennis - i più giovani. Il lambiccato apparato installativo-performativo di Marcello Maloberti; il calviniano barbiere all’opera su un albero di Sisley Xhafa; il blocco di cemento impastato con polvere d’oro di Piero Golia; la lastra dilavata con impulsi sonori da Francesca Grilli.
  Si compone comunque un quadro italico di partecipazione alle inquietudini contemporanee segnato – fa notare Stefano Chiodi – dalla oscillazione fra “grumo di straniamento e desiderio di continuità”. Alcune scelte potevano essere diverse, c’è troppo “usato sicuro”. Ma viene ristabilita la serietà della ricerca, la dignità problematica della proposta.  Non è poco nell’Italia di oggi.
PIETRO MARINO
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Fra gli eventi d’arte  che occupano Venezia in occasione della Biennale 2013, di particolare interesse per i pugliesi è la performance di Chiara Fumai, vincitrice del premio Furla per giovani artisti italiani, nella Fondazione Querini Stampalia. Chiara (Roma 1978) vive a Milano, ma il padre è barese, a Bari vivono entrambi i genitori e a qui lei ha vissuto e studiato sino al liceo. A Bari ha compiuto alcune tappe significative della sua rapida emersione sulla scena non solo nazionale (basta ricordare la partecipazione a Documenta Kassel 2012). Si è affermata per singolari invenzioni concettual - performative nelle quali il femminismo “politico” s’impasta con l’esoterismo in storie sospese ambiguamente fra memoria privata e finzione letteraria. Dice (mentendo) di non volerci allarmare con la performance che ha ideato per Venezia (“I did not Say or Mean Warning”). La tiene di persona due volte al giorno, in italiano e in inglese, per gruppi ristretti (sino al 30 giugno). Si tratta di una “visita guidata” alla collezione della prestigiosa Fondazione veneziana, con quadri e statue, mobili e arredi di Sette - Ottocento. L’artista conduce il pubblico nelle singole sale con compitezza professionale. Si sofferma in ciascuna a spiegare un’opera in particolare, specie quelle in cui appaiono donne della Bibbia o della storia. A tratti, di colpo, il freddo rigore della narrazione s’interrompe, Chiara perde la voce, assume una espressione cattiva, comunica qualcosa con i gesti dei sordomuti. Dev’essere una storia violenta, perché si conclude con un accenno di taglio di gola (è la registrazione della telefonata di una brigatista rossa negli anni 70 che confida la sua rabbia di donna nel contesto della lotta armata). Dopodiché riprende come nulla fosse il filo del discorso. Il pubblico è come catturato nella trappola degli spiazzamenti mentali, esaltati dal contesto museale. La registrazione della performance è proiettata su monitor collocati in diversi spazi della Fondazione. Poi il video passerà nella collezione del Mambo di Bologna (p. mar.)






Arte a New York: ma è ancora il centro del mondo? (per "Empire State", mostra a Roma)

New York è stata per almeno mezzo secolo, dal dopoguerra, la capitale mondiale dell’arte contemporanea. Ma lo è ancora? Il dubbio ritorna visitando una mostra in corso a Roma nel Palazzo delle Esposizioni che intende rappresentare con 20 autori “l’arte a New York oggi”. S’intitola “Empire State”, citando lo storico appellativo della New York City coniato orgogliosamente ai tempi di George Washington. Che le cose siano cambiate lo riconosce “sir” Norman Rosenthal, l’anziano e autorevole critico inglese che ha curato la mostra con un rampante curatore newyorchese, Alex Gartenfeld, 26 anni: “una vera e propria esplosione artistica si è diffusa in tutto il pianeta”. Effetto della “nuvola informatica” ma anche di nuovi protagonismi sia dall’Europa (Londra, Berlino) sia dall’Estremo Oriente. Tuttavia si è accelerata la “trasformazione dell’arte in un’industria di livello mondiale “ e New York è l’epicentro del “capitalismo globale” (scrivevano Antonio Negri e Michael Hardt in “Empire”, 2000). Rimane il cuore del mercato internazionale dell’arte e continua ad essere melting pot attrattivo per gli artisti. Anzi si è trasformata in “città spettacolo”, sostiene Tom McDonough in uno dei testi nel denso catalogo Skira, citando “La società dello spettacolo” di Guy Debord (1967). Ne vede un segno nella “gentrificazione” dei quartieri popolari della città da parte di una borghesia in cerca dell’autenticità perduta. Con un effetto paradossale : ”Cacciando via i poveri, le automobili e gli immigrati, facendo ordine, eliminando i germi, la piccola borghesia annienta esattamente ciò che è venuta a cercare”.
Così “l’autenticità” del passato e del vissuto si trasforma in feticcio e simulacro - il Kitsch, in sostanza. Del resto l’identificazione dell’opera d’arte come merce ebbe proprio a New York il suo lucido profeta, Andy Warhol. Eredità raccolta da Jeff Koons che contamina ironicamente classicità e banalità: come la “scultura” di Venere in acciaio lucidato in verde con un vaso di fiori accanto. Con maggiore finezza di concetto e di gesto, un artistar come Julian Schnabel sovrappone imperiosi arabeschi pittorici a ingrandimenti fotografici di pannelli ottocenteschi che raffigurano una vittoriosa battaglia indipendentista di George Washington. Capofila di alcuni interessanti tentativi di reinventare i linguaggi diffusi dalla fucina di New York. Michele Abeles cita le Bandieredi Jasper Johns in scomposizioni digitali. Joyce Pensato stravolge il Paperino dei fumetti con pittura in bianconero da action painting, energica e drammatica. All’opposto, Wade Guyton riprende il gigantismo inespressivo della pittura minimal producendo con stampante a getto d’inchiostro 15 metri di strisce orizzontali verdi e rosse su teli di lino.
Ben pochi – almeno nelle scelte talvolta opinabili dell’Empire State – si sottraggono alle pratiche postmoderne del simulacro, che l’arte europea va contestando. Rincorre spettacolarità ludica Rob Pruitt, contrapponendo un gigantesco stegosauro in fiberglass nero ad una parete di  “quadri” iperrealisti con accumuli di libri. Un pastiche visionario è  il “ciborio” di Keith Damier che s’innalza nella rotonda. La sua struttura in acciaio vuole citare la vecchia Penn Station demolita nel 1963 e insieme la struttura a cupola del Pantheon romano; mentre finte ostriche si accumulano ai piedi dell’edicola, a ricordo di quelle che il porto inquinato di New York non produce più…
C’è più esperienza viva della scena urbana nei padiglioni trasparenti del grande Dan Graham, che moltiplicano e confondono percezioni spaziali (in mostra i modelli). Traspare l’anima critica di New York nel video Les Goddesses di Moyra Davey: si aggira con la telecamera nella sua stanza in un grattacielo che lascia indovinare la vita che si svolge fuori, mentre emergono da pagine e foto storie sue, di Goethe, di Freud, di Fassbinder che lei dice con voce che tentenna e sbaglia. E Adrian Piper, esponente storica del concettualismo analitico (non a caso è andata a vivere a Berlino) ci lascia con quattro lavagne sulle quali ha scritto a mano 25 volte, col gesso di scuola, la frase “Tutto sarà portato via”. Minaccia o promessa, profezia o desiderio?

*La mostra “Empire – Arte a New York oggi” è aperta a Roma nel Palazzo delle Esposizioni (via Nazionale) sino al 21 luglio. 
Orari: 10-20, venerdì e sabato 10-22.30, lunedì chiuso. 
Ingresso  euro 12,50, ridotto 10. Catalogo Skira. 
Info: palazzoesposizioni.it