venerdì 20 giugno 2014

Si è spento in un ospedale di Taranto Vittorio Del Piano.....



Ho appreso della scomparsa di Vittorio Del Piano, artista tarantino d'intensa storia. Me ne duole molto. Ecco qui di seguito il breve ricordo che ne ho tracciato per la Gazzetta del Mezzogiorno di domani.
"Si è spento in un ospedale di Taranto Vittorio Del Piano (Grottaglie 1941), artista con accese passioni sperimentali, protagonista di molte iniziative d’avanguardia in Puglia, e docente per parecchi anni di corsi speciali nell’Accademia di Belle Arti di Bari-Mola. Era emerso nei Sessanta fra i giovani impegnati a Taranto in prove di arte geometrizzante fra ghestaltismo e neocostruttivismo, molto attive negli anni in cui nasceva il Siderurgico, sostenute dal critico Franco Sossi. Si era poi volto all’ambito dell’arte moltiplicata e meccanica, con affondi fra poesia visiva e nascente videoarte. Riteneva importante per la sua storia l’incontro con il critico francese Pierre Restany – il teorico del Nouveau Realisme - con cui stabilì un lungo rapporto, e con altri noti operatori culturali italiani e stranieri come Jacques Lepage, Rafael Alberti, Guido Le Noci, Michele Perfetti. L’arte come impegno civile e intervento “politico” nella città fu da lui sostenuta anche con una fervida produzione di scritti, fra cui il Manifesto dell’Arte Pura (1985). Fra cartelle serigrafiche, portfolio, opere di “arte postale”, espresse una creatività multimediale inquieta e fluviale, coinvolgente per i suoi allievi. Dotato di forti spiriti polemici, nutrì molto il sentimento dell’”esilio in patria”. Maturato, nel tempo, con battaglie tese a recuperare identità del suo territorio in cui comunque era profondamente radicato. Come l’Asilo-Maison Mediterraneo a Martina Franca (2007-2008) con la plantumazione di alberi in memoria dei suoi idoli. E sin quasi agli ultimi giorni, la campagna per recuperare al patrimonio di Taranto la “Persefone Gaia”, marmo del IV-V secolo che sta nel Pergamon Museum di Berlino. “La città se non è per l’uomo non è città” era uno dei suoi slogan. Torna di attualità mentre il sogno dell’”acciaio fra gli ulivi” tramonta fra nuvole di veleni".
   
Pietro Marino

sabato 8 febbraio 2014

Un Vettor Pisani finalmente più sereno a Bari: la mostra nel Teatro Margherita con le note di Ravel

No, non ci sarà da domani nel teatro Margherita di Bari la tartaruga che Vettor Pisani costrinse a girare veloce attaccata con lo scotch ad una macchinina telecomandata nel Castello Svevo, luglio 1970. E non ci saranno i “tre topi lentissimi” (criceti in verità) costretti al contrario a procedere incatenati. Invece, al centro della mostra sul grande artista barese scomparso nel 2011 che integra la retrospettiva in corso nel MADRE di Napoli, troneggia (ingrandita) la pedana in grigio sulla quale avvennero quelle obbligate performances. Con alcune tartarughine, tranquille discendenti di “malinconica Pot, la tartaruga più veloce del mondo”. Ancora dalla mostra 1970 restano due canestri con finte uova di struzzo, che allora erano messe a confronto con vaschette di uova vere, cotte e crude, gusci e tuorli. Era il tema della dialettica fra natura e (vincente) cultura che Pisani, fresco di letture antropologiche, metteva in scena con teatralità crudele alla Artaud. Oggi (evitando prudentemente le reazioni degli animalisti di ieri e di oggi) quelle installazioni sono consegnate ad una sorta di straniata metafisica dell’assenza. Ad un “silenzio” come quello che Vettor dedicava in una targa a Marcel Duchamp: massimo ispiratore della sua “arte critica” che a Bari sollecitò curiosità ma anche imbarazzi e polemiche.
Altri frammenti della mostra barese che consacrò l’esordiente artista come vincitore della seconda edizione del premio Pascali sono affidati a fotografie d’epoca ristampate da Claudio Abate. In una s’intravede l’artista in giacchetta bianca che sta in piedi, “impiccato” ad uno scorrevole di acciaio. Ma quella sconvolgente performance e le opere fondamentali che svolgevano i motivi duchampiani dell’incesto come simbolizzazione  del “maschile-femminile- androgino”  e dell’ impiccagione come censura e impedimento sono riprese ed esposte nella mostra di Napoli (vedi “Gazzetta” del 29 dicembre). 
A Bari i curatori (Andrea Viliani direttore del MADRE ed Eugenio Viola con la supervisione di Laura Cherubini, grande esperta e amica di Pisani) hanno preferito puntare su una limpida, ariosa lettura monotematica di un mondo che gioca fra contrasti dialettici e ambigue fusioni. Segni forti di teatralità simbolista e surreale sono incrociati con alchimie e trasparenze che rinviano al motivo amniotico dell’acqua in tonalità più “mediterranee”. Così, la pista delle tartarughe si trasforma in pedana da circo: circondata da disegni e dipinti con personaggi da circo appunto e dall’autobiografico “pupazzo di Paracelso” in frac impiccato a una ruota. Mentre ad una delle plastiche visioni di Ischia in sognante azzurro alchemico si contrappone il fotomontaggio con l’Isola dei Morti di Boecklin, Edipo e la Sfinge, sormontato da un piatto da musica come sole. E la scritta che smentisce Dostojevski “l’Arte non salverà il mondo”.
Ma clou scenico sono le cinque opere che si stagliano come “personaggi” (suggerisce Viliani) contro le vetrate da cui traspare il lungomare di Bari, su un pavimento tinto in blu Klein.   Al centro la (preziosa) ricostruzione dell’architettura a doppia semicroce a tau del R.C. Theatrum, il Teatro Rosacroce “che non esiste”. Congiunzione alla Beuys di Europa e Asia, labirinto minimalista di vetri. Attorno, la Venere di cioccolato posata su un quadrato di nove specchi alla Pascali e un pentolino con cioccolato in polvere che emanerà il suo profumo nella serata inaugurale. Il “tavolo anatomico” con  “incontri fortuiti” alla Isidore Ducasse, bibbia del surrealismo: un ombrello chiuso, uno aperto, un calco di busto di donna contenuto da cinghie. Un tavolo con piano di vetro nel quale si specchia la statuina di un putto rosa, altro prezioso recupero (“Vettor è nato sotto il segno dei Gemelli”, è il perentorio incipit di un illuminante testo 1976 di Mimma Pisani affisso lì accanto). E una tavolozza in plastica  azzurra su cui posa un uccello multicolore.
Altri notevoli documenti sul Teatro della Vergine e disegni di raffinata visionarietà eseguiti in epoche diverse (non però nei Sessanta, gli anni “baresi” di Vettor di cui ho scritto il 24 gennaio) compongono la mostra. In altri momenti abbiamo posto l’accento su una lettura in chiave tragica e grottesca (negli ultimi tempi sempre più disperatamente enfatica) della vita e dell’opera di questo “antieroe” dell’arte. A Bari una sintesi sublimata e decantata è offerta dallo stretto corridoio illuminato da luce azzurra alla Klein (prima di Turrell) con una piccola piramide aerea a parete che contiene un bambolotto. Intanto nello spazio si diffondono le note del Concerto per la mano sinistra di Ravel. Con vitalismo e speranza.  
PIETRO MARINO

* S’inaugura a Bari domani lunedì 27 gennaio alle ore 19 nel Teatro Margherita la mostra su Vettor Pisani “Eroica/Antieroica. Una retrospettiva”, sezione della retrospettiva in corso nel MADRE di Napoli. Sarà presente la vedova dell’artista, Mimma Pisani. Nel corso dell’inaugurazione si svolgerà una performance con Gaia Riposati che leggerà poesie di Vettor Pisani e l’esecuzione al piano delle Gymnopedies di Satie.  La mostra è stata presentata alla stampa ieri mattina nel Circolo della Vela, messo a disposizione dal presidente Simonetta Lorusso. Il vicesindaco Alfonso Pisicchio e Vito Labarile consigliere incaricato del sindaco per le arti visive hanno celebrato l’importanza della mostra (“ultima del mandato”) nel contesto delle iniziative attivate nel corso di quattro anni per fare del Margherita “un tempio dell’arte contemporanea”. Andrea Viliani direttore del MADRE ha spiegato ragioni e contenuti della mostra di Bari, da lui curata con Eugenio Viola sotto la supervisione di Laura Cherubini, vicepresidente del MADRE (sarà presente anche lei all’inaugurazione con il presidente Pierpaolo Forte). La mostra di Bari resterà aperta sino al 30 marzo, tutti i giorni (ore 11-13, 16-21) con ingresso libero.

sabato 28 settembre 2013

A Terlizzi i volti sospesi per strada da Cosmo Laera

Da sabato scorso, una strada stretta e lunga nel centro storico di Terlizzi è occupata da una popolazione volante di volti fotografici sospesi in alto su pannelli quadrati, su più file tese fra un muro e l’altro, quasi panni a stendere o stendardi poveri. Al centro della strada l’ingresso ad un vano ipogeo è sbarrato dalla proiezione di un video che rimanda a scatti come di diapositive, su una colonna sonora a ritmo incalzante, gli stessi volti inframezzati da particolari di interni ed oggetti domestici. L’effetto è piuttosto straniante, perché i visi sono quelli degli abitanti e frequentatori della stessa via e di un paio di stradine adiacenti. E’ come se i ritratti scendendo da lassù prendano corpo e vita – un po’ come accadeva con la vernice magica del sor Lambicchi, striscia famosa del Corriere dei Piccoli ai tempi della (mia) infanzia.

L‘operazione è stata realizzata da Cosmo Laera, il noto fotografo pugliese, per la seconda puntata di un progetto ideato e curato da Maria Vinella per l’Edicola RaRa di Paolo De Santoli, la porta-finestra dello spazio sotterraneo che l’artista-gallerista terlizzese usa per apparizioni sul fronte-strada, sulla scorta di iniziative analoghe come a Roma l’Edicola Notte di H.H.Lim. L’intelligente ciclo “Insight” di cinque mostre- eventi con altrettanti protagonisti fu aperto da una suggestiva performance di Tarshito nel giugno scorso. La nuova personale che s’intitola “Vicino a te, vicino a me” segna un passaggio molto interessante nel percorso maturo di Laera. Il fotografo di Alberobello si è affermato per una serie cospicua di esplorazioni del territorio pugliese e non solo. Ma ha assunto rilievo anche il ritratto, non come “genere” di rappresentazione fisiognomica o indagine socio-antropologica ma in quanto evocazione di “incontri per immagini”. Il prodotto più rilevante sinora è la serie di oltre cento ritratti di operatori nel sistema della fotografia – artisti, critici, curatori, estimatori, amici – incontrati anche nel corso delle meritorie rassegne di cultura fotografica d lui organizzate.
Ma lì gioca l’identità riconosciuta, la notorietà spesso internazionale dei personaggi ripresi in bianconero, in pose diverse, in campo medio e in contesti spaziali significativi del loro lavoro o delle occasioni di rapporto. A Terlizzi invece la ripresa è in primissimo piano e di profilo, senza spazio contestuale, in colore basso come pallore di pelle. Propone personaggi anonimi, in gran parte di età avanzata e di condizione umile, con sguardi sfuggenti, ambiguamente rivolti ad un vuoto. Così il ritratto fotografico si dà come “chiave di accesso ai sentimenti”, e la folta installazione che ne risulta assume valenza potenzialmente processuale e relazionale: il fotografo ha cercato i suoi personaggi, è entrato nelle loro case, ha messo in posa i loro pensieri smarriti. I “microcosmi di vicinanza, relazione, condivisione” (Vinella) sono incontrabili a Terlizzi in via De Cristoforis, sino al 14 ottobre.

sabato 14 settembre 2013

Un pioniere pugliese della Poesia Visiva: addio a Michele Perfetti

Addio a Michele Perfetti, pioniere pugliese del movimento italiano di Poesia Visiva sin dai primi anni Sessanta. Aveva 82 anni, era nato a Bitonto nel 1931, aveva vissuto a Taranto sino al 1973 dove fu protagonista dei fermenti di ricerca artistica che avevano al centro il Circolo culturale dell’Italsider (altri tempi). Poi se n’era andato ad insegnare a Ferrara dove ha operato sino ad ora (divenendo anche preside del locale Liceo Scientifico) e lì si è spento nel sonno – così mi annuncia da Taranto l’artista Vittorio Del Piano, suo sodale in quegli anni fervidi, il quale ha appreso solo ora del decesso che risale addirittura al giugno scorso. Un addio tardivo, dunque, ma necessario per risarcire l’oblìo sceso su un artista che ha avuto ruolo primario in una delle vicende più intriganti delle neoavanguardie nazionali fra i Sessanta e i Settanta. Perfetti fu tra i primi aderenti al  “Gruppo 70” fondato a Firenze nel 1963 da Miccini, Pignotti, Chiari e allargato a partecipazioni eccellenti come Isgrò, Bussotti, Ketty La Rocca, Simonetti, Sarenco, Spatola…. Fu come il battesimo della “poesia  visiva”, che contaminava in frantumata sintassi gli apparati iconici dei massmedia con scritture manuali o tipografiche. Ricerche e proposte di scrittura visuale erano già in corso con varie denominazioni (senza dire dei precedenti storici, dai calligrammi di Mallarmé e Apollinaire alle “tavole parolibere” futuriste). Ma il gruppo che faceva capo a Firenze si connotò per l’apertura alle tecnologie moltiplicate e per la carica polemica nei confronti della società dei consumi, in competizione-opposizione alla Pop Art anglosassone. “La poesia visiva colpisce alle spalle, è una quinta colonna nelle file nemiche dei massmedia”, proclamavano congiuntamente Perfetti e Miccini nel 1971. E in una intervista del 2009, per una delle tante mostre che nell’ultimo decennio hanno rivisitato quei movimenti, Michele ricordava con una punta di nostalgia: “ Noi avevamo l’utopia di cambiare il mondo attraverso la poesia…la poesia visiva costringe a guardare il mondo con occhi diversi”.
Carica utopica che lui espresse sin dagli anni tarantini, con una serie di iniziative. La personale 1967 “…000+1 – Poesie tecnologico-visive” nel Circolo Italsider. La collettiva nazionale “Comunicazioni visive” curata con Gianni Iacovelli a Massafra nel 1968. Una sezione internazionale nell’ambito della mostra “Co/incidenze” sempre a Massafra 1969. La personale e il libro “Plastic City” di nuovo al Circolo tarantino nel 1971. Nel 1972 a Bari la mostra di Poesia Visiva nella neonata galleria Centrosei  e un’altra personale. La nascita a Taranto del “Centro sperimentale Punto Zero” con Vittorio del Piano nel 1973 e gli “Innesti” con Vitantonio Russo. Solo per dire dei principali interventi nelle  nuove proposte che si agitavano fra Taranto Lecce e Bari (una ricostruzione di quel periodo pugliese è stata fatta da Antonio Lucio Giannone nel libro-catalogo della mostra “Di-segni poetici” che ha inaugurato nel 2011 a Matino nel Salento il MACMA, Museo di arte contemporanea dedicato proprio a collezioni di poesia visiva).
Da Ferrara, attivissima sino ai tempi ultimi è stata la presenza di Perfetti in tante oper/azioni  di poesia visiva in Italia e all’estero, Biennale di Venezia compresa. Con una personale cifra segnata da fantasia ironica, meno aggressiva e più trasognata col passare degli anni. Giocata sul fluttuare nel vuoto di frammenti sempre più semplificati e decantati. “Al di qua della parola al di là dell’immagine” fu la sua dichiarazione di poetica premessa come titolo-slogan a gran parte delle mostre e pubblicazioni dal 1981 (laureato in filosofia, produsse parecchi scritti teorici). Le nostre strade si sono incrociate raramente dopo i Settanta. Ne scrissi l’ultima volta l’anno scorso, in occasione di ArteLibro a Bologna, dove erano esposte le pionieristiche pubblicazioni con suoi contributi curate a Bologna fra il 1965 e il 1968 da un editore anche lui di origini tarantine, Riccardo Sampietro. Ed è una sensazione amara e struggente (questione di età) ripensare a tante avventure corse e interrotte per la cultura in Puglia, ed ai suoi protagonisti dimenticati anche per colpa nostra. Ma Michele Perfetti ci richiama all’esorcismo salvifico dell’ironia. Nel 1966 aveva fatto eruttare da un water parole ritagliate come amore, sogni, verità. Nel 2007 invitava ancora ad uno svagato ottimismo della volontà: “Oggi può essere un gran giorno: datti un’opportunità”. Ma contro un profilo di donna si stagliava un biglietto di lotteria.

Gli "ambienti sensibili" di Paolo Rosa, il pioniere di Studio Azzurro. Un ricordo dalla Pugli

Mi addolora la notizia della scomparsa improvvisa di Paolo Rosa, leader e teorico del gruppo Studio Azzurro pioniere in Italia della videoarte interattiva. E' morto per infarto, a soli 64 anni, mentre era in vacanza a Corfù. Avevamo un lungo rapporto che posso definire di amicizia, prima che di stima professionale. Ci eravamo visti in giugno alla Biennale di Venezia; nei primi giorni di agosto era stato a Polignano, per un workshop al Museo Pascali. Ne ho scritto in fretta un ricordo - molto concentrato sui suoi rapporti con la Puglia e col Mediterraneo- che esce domani sulla Gazzetta. Lo riverserò solo dopo, come sempre per correttezza nei confronti del mio giornale, su facebook. Intanto addio amico Paolo.


Il mondo dell’arte è in lutto, anche in Puglia, per la scomparsa improvvisa di Paolo Rosa, leader di Studio Azzurro, il  gruppo italiano che aveva fondato con pochi amici nel 1982, pioniere in Europa di videoarte interattiva. E’ morto per infarto l’altra sera a Corfù mentre era in vacanza, aveva 64 anni (era nato a Rimini nel 1949). Pochi giorni prima, il 5 e 6 agosto, aveva tenuto nel Museo Pascali di Polignano a Mare un workshop per un folto gruppo di giovani nel quale aveva raccontato la sua avventura e le sue idee sull’arte oggi. Quasi un testamento involontario, ultimo atto di un lungo rapporto di stima e di amicizia con l’ambiente pugliese. Era stato consacrato nel 2004 con l’attribuzione a Studio Azzurro del premio Pascali. Ne resta come testimonianza permanente l’installazione interattivaFrammenti di una battaglia (ispirata dalla Battaglia di San Romano di Paolo Uccello) acquisita dal Museo dopo aver vinto il primo premio alla  Quadriennale di Roma 1996. Il rapporto con la Puglia era iniziato nel lontano 1987, quando Studio Azzurro partecipò alla rassegna “Artronica” curata a Bari in Santa Scolastica da Anna D’Elia, ribadito nel 1990 a Bitonto per la mostra “La Pietra e i Luoghi” con Franco Sannicandro e ancora a Bari nel 1996 in “Virtual Light”, rassegna di videoarte e arte interattiva organizzata da Antonella Marino in Palazzo Fizzarotti.
Ci vedevamo spesso in giro per mostre – ne scrissi per esempio per la loro grande antologica del 1999 nel Palazzo delle Esposizioni a Roma. Nel giugno scorso ci eravamo rincontrati alla Biennale di Venezia dove Studio Azzurro era stato invitato ad allestire nel neonato padiglione del Vaticano un complesso “ambiente sensibile” che sviluppava, anche presentando in video storie di gente umile, il tema della Genesi. Riconoscimento prestigioso, che Paolo mi aveva sottolineato – mentre mi guidava nella visita- con un’ombra di pacata amarezza negli occhi cerulei: ”Dovevamo  attendere mons. Ravasi e la Chiesa – mi disse – per essere invitati alla Biennale di Venezia”. Normale disattenzione italica per un gruppo che era stato subito invitato a Documenta Kassel dopo la spettacolare videoinstallazione presentata nel 1984 proprio a Venezia, in Palazzo Fortuny: un Nuotatoreche attraversava a lunghe bracciate 24 monitor…
Da lì, una lunga serie di coinvolgenti esibizioni in Italia e all’estero con i compagni di avventura, Fabio Cirifino, Leonardo Sangiorgi, Stefano Roveda.Troppe per essere ristrette nel sintetico ricordo di un amico “lucido e amabile” come ha ben detto Angela Vettese. Apparizioni magiche per un pubblico chiamato ad interagire con tocchi di mani e scalpiccio di piedi, i loro “ambienti sensibili” sviluppavano spesso un leitmotiv di fondo: la rivisitazione della storia e della cultura del nostro Paese come DNA da rivitalizzare con la tecnologia più avanzata. Proposta confermata nella Sensitive City per l’Expo di Shanghai 2010 e per la mostra sulle Fare gli  italiani da lui diretta nell’ambito delle celebrazioni per l’Unità d’Italia. Paolo era anche l’ideologo, il teorico del gruppo. Questa intuizione aveva trasmesso nell’insegnamento a Brera – l’Accademia dalla quale era uscito come studente – e in una serie di interventi e di libri. Ultimo quello scritto con Andrea Balzola, L’arte fuori di sé. Un manifesto per l’età post-tecnologica (Feltrinelli 2011). Il progetto era di coniugare “i piaceri e le bellezze infinite del naturale e dell’antico con le contraddizioni invasive della modernità”.
Di questa idea – matura rivisitazione della cultura dell’età postmodern – era parte fondante il rapporto, culturale ed affettivo, di Paolo Rosa con il Mediterraneo. Si era rinsaldato dopo le Meditazioni mediterranee compiute nel 2002, con cinque videoinstallazioni in Castel Sant’Elmo a Napoli. Da esse sortirono i Nodi mediterranei proiettati due anni dopo a Polignano a Mare, per il premio Pascali, alla presenza di Nichi Vendola. Dopo il workshop di agosto Rosalba Branà, direttrice del Museo, gli aveva affidato la progettazione di una sala virtuale su Pino Pascali, il grande pugliese morto tragicamente a 33 anni. Al cospetto del Mediterraneo si è sciolto all’improvviso anche il nodo della sua vita. Strana e dolce congiunzione di interrotti destini.

Io, Marylin e la torre


Dalla mia strana villetta con tetti spioventi a tegole rosse scendo di solito a fare svogliatamente un bagnetto libero fra gli scogli di Torre Cintola, sulla strada per il Capitolo di Monopoli. C’è un breve tratto di scogliera alta, un cartello avverte di  pericolo di dissesto idrogeologico, nessuno ci fa caso. Qualcuno fa picnic all’ombra della torre semidiroccata, l’hanno rimessa su in parte e poi abbandonata. Quasi accanto c’è un bar che è cresciuto pian piano, prima c’era un baracchino per le cozze. Il baracchino si è spostato più in là e si è ingrandito, ha lunghe tettoie di legno quasi a ridosso di un villaggio turistico a palle bianche che ora è chiuso. E’ fallito dopo anni ruggenti, proprio quando gli avevano spianato di fronte un vasto parcheggio con una stradina ciclabile che non porta da nessuna parte. Il bar invece si è esteso scendendo sugli scogli con terrazzini e divani, ci hanno piantato persino una palmetta. Io ci  passo qualche volta col pretesto di farmi uno spritz, in realtà vado a trovare la mia amica Marylin.
Mi siedo ad un tavolino e lei mi sorride da una grande foto in bianconero affissa su una parete esterna del chiosco, dalla parte che guarda il mare e l’oriente. Non c’è niente di morboso nel suo protendersi verso di me dalla scollatura vasta e morbida, nessuna tentazione da dottor Antonio, come la felliniana Anitona gigantesca che invitava a bere più latte. No, con Marylin siamo cresciuti insieme. Pochi giorni fa, il 5 agosto, era l’anniversario della sua morte. Quella sera del 1962, quando giunse in redazione la notizia del tragico rinvenimento del suo mitico corpo spento su un letto disfatto, mi chiesero di scriverne in prima pagina. Alla Gazzetta ero entrato da pochi mesi, in prima pagina di solito nessuno poteva scrivere se non il direttore Oronzo Valentini. Non ricordo cosa scrissi, probabilmente qualcosa di patetico, piacque a parecchi. “Dovresti scrivere sempre di queste cose” mi disse Cettina, la moglie di Michele Campione, incontrandomi il giorno dopo come ogni estate, alla Baia di Palese.
Negli anni Novanta andai a Los Angeles con Flavia Pankiewicz. Lessi su una guida che dalle parti del mio albergo – era vicino al campus dell’UCLA, l’Università californiana – doveva stare il luogo dove Marylin Monroe era sepolta. Ci misi due ore per trovarlo, nessuno sapeva o forse non capivo. Era un giardinetto chiuso fra un garage multipiano, poche tombe di vip più o meno sul prato o alle pareti, anche Truman Capote credo. Marylin stava in un loculo dentro il muro di cinta, solo una lapide di pietra bianca col nome e le date 1926 -1962,  lì sotto una panchinetta con l’iscrizione “Amici di Marylin”, niente fiori, non più il fascio di rose che si favoleggiava mandasse ogni giorno Joe Di Maggio. Avrei voluto portargliele io, una sola rosa intendiamoci, ma non c’era ombra di fioraio per chilometri. Gliel’ho ricordato andandola a salutare nel pomeriggio torrido di questo 5 agosto e lei mi ha ammiccato, così va la vita.

Luigi Presicce, dal Salento magico alla contemporaneità



Re Salomone che visita i tagliatori delle pietre per costruire la Cupola della Roccia di Gerusalemme, e i tagliatori che rispondono battendo colpi di scalpello, a ricordare la confusione delle lingue nella Torre di Babele. Confusione moltiplicata da citazioni sceniche dalla Grosse Halle eretta nella Berlino nazista dall’architetto Albert Speer. Questo il nucleo della performance tenuta il 27 luglio nel Palazzo Danieli a Gagliano del Capo da Luigi Presicce, artista salentino in grande ascesa (è nato a Porto Cesareo nel 1976, vive – per quel poco che ci sta – a Milano). Alla performance “Le tre Cupole e la Torre delle Lingue” organizzata dall’associazione Capo d’Arte poteva assistere uno spettatore per volta, e per soli due minuti. Più o meno quel che avviene in tutte le sue opere realizzate dal 2007 ad oggi. Quasi a sollecitare un rapporto personale di meditazione  con la liturgia esoterica che l’artista mette in scena. Se ne fa sacerdote con vista occlusa da una maschera calata sulla fronte – di solito una piramide bianca. Una liturgia ridotta a poche  mosse, se non addirittura condotta a fissità assoluta e prolungata, da tableau vivant.
Così avveniva nella performance “La Benedizione dei Pavoni” tenuta a Porto Cesareo nel 2011 alla vista solo di due bambini. Lui stava per sei ore immobile in un gazebo con pavoni, in tunica bianca e grembiule rosso massonico, circonfuso da un’aureola di luminarie paesane. Tradotta in video ed esposta a Firenze nella mostra di sedici “Talenti Emergenti”, valse all’autore il premio internazionale  indetto dalla Fondazione Palazzo Strozzi. Consisteva nella edizione di una monografia a cura del Centro di cultura contemporanea Strozzina, organizzatore della rassegna. Pubblicata da poco, costituisce un prezioso e raffinato contributo alla conoscenza di una personalità complessa e anomala nel panorama dell’arte italiana di oggi: con saggi di Franziska Nori e Barbara Gordon e schede di opere dal 2009 al 2012 illustrate con apparati di tavole a colori. Ne emerge la figura  di un artista-sciamano (come Dalì, Ontani, Beuys) ispirato da “Mistici e Maghi” (raccolti in un suo libro d’artista del 2009). Ovvero “figure carismatiche o icone religiose e pop, personaggi e luoghi di derivazione massonica, esoterica o politica” (scrive Franziska Nori) che popolano un “gioco di rimandi tra arte e vita”.
Trapassando dalle scene fisiche a video e fotografie, si costituiscono degli apparati teatrali vissuti da personaggi della storia e della cronaca nell’ambito di scene dell’arte, medievale, rinascimentale, barocca –  Giotto in specie – e di repertori allegorici di sette e di religioni. Un mixage eseguito con esatti ritmi interni, con lucidità ieratica, che richiede o crea “intimità, solennità, intensità e risonanza” (Barbara Gordon). Una impenetrabile misura di allucinazione iconica che affonda radici antropologiche e culturali nel Salento magico, popolare e bizantino, per risalire al Carmelo Bene di Nostra Signora dei Turchi che lo emozionò da ragazzo. Presicce torna spesso nella sua terra per ambientarvi molte delle oper/azioni documentate nel libro, col team ormai consolidato di giovani collaboratori, anzi co-autori. Ma la svolta alla sua ricerca (iniziata dopo l’Accademia di Lecce come pittore di fantasia grottesca) risale –  lui stesso dichiara – ai workshop 2007-8 condotti da Joan Jonas (Fondazione Ratti a Como) e Kim Jones (Viafarini, Milano), artisti americani che hanno rinnovato la performing art in chiave concettuale - surreale. Così le radici dell’Origine sono rivitalizzate da Presicce attraversando percorsi della Cultura contemporanea. Al libro in edizione bilingue, l’artista pugliese ha premesso in epigrafe il lamento di un brigante meridionale, Michele Caruso: “Ah, Signurì, s’avesse saputo  legge e scrive avrìa distrutto lo genere umano”. Nella traduzione inglese a fronte, sembra Shakespeare: “Oh Sir, had I known how to read and write, I would have destroyed the human race”.