martedì 19 febbraio 2013

Gabriele Basilico, la fotografia come ritratto di città


 


Aveva condensato in 90 scatti il ritratto di Bari, in una mostra che si tenne nella Pinacoteca Provinciale fra il 2007 e il 2008. Nell’allucinata fissità dell’amato bianconero le sue immagini, spesso sorvolanti in voli obliqui il panorama urbano per poi discendere nella sorpresa di tagli angolari fra strade palazzi e mare, trasmettevano l’idea di una città in ricerca identitaria fra sogni smarriti di modernità. Era questo del resto il metodo con cui Gabriele Basilico – il grande fotografo scomparso a 69 anni - si era affermato ben oltre i confini nazionali come l’artista che più di ogni altro ha interrogato con la sua camera il corpo delle città del mondo, come  - diceva - “identità organica in movimento, una dilatazione del nostro corpo”. Ed è per questo che dalle sue immagini erano state ben presto – dopo gli esordi milanesi - escluse le figure degli abitanti: perché i personaggi erano gli edifici, le fabbriche, i magazzini, le strade. Con le loro storie segrete, i segni del tempo collettivo.
 Dell’immenso repertorio di città d’Italia d’Europa e del mondo da lui indagate in modo sistematico si ama citare come ciclo più famoso quello su Beirut, realizzato nel 1991 nel tempo di interstizio tra la fine della lunga guerra civile che l’aveva devastata e l’attesa di una ricostruzione che ancora doveva iniziare. Quelle visioni di palazzi che si ergevano come corpi di martirio su lame di strade deserte restituivano con smarrimento metafisico il sentimento del Crollo – a dirla con Marco Belpoliti – che ha attraversato la contemporaneità, dal Muro di Berlino alle Torri Gemelle. Tanto da essere assunte senza se e senza ma fra le opere esposte nella Biennale di Venezia del 2007 (l’edizione diretta dall’americano Robert Storr) quasi a ribadire, fra l’altro (ma da tempo non ce n’è più bisogno) che nessuna distinzione è più possibile fra arte e fotografia, se non nelle destinazioni d’uso delle immagini. E nella Biennale Architettura di Chipperfield, l’anno scorso, le sue fotografie dilagavano: ha lasciato all’istituzione veneziana un corpo completo di immagini di tutti i padiglioni.
Così nel lavoro di Basilico la committenza professionale e la libera interrogazione dei luoghi si sono da sempre intrecciate: nella ricerca di equilibrio – sempre parole sue – fra “mandato sociale e sperimentazione del linguaggio”. Sin dai “Ritratti di fabbriche” di Milano del 1978-80, primo atto con evidenza formale di un rapporto che ben si può definire  di amore per la città in cui è nato e vissuto pur nella professione di giramondo; e a Milano è stata dedicata l’ultima sua apparizione, quando – già malato da oltre un anno – ha fatto proiettare sue immagini sulle facciate degli edifici della piazza dedicata a Gae Aulenti, altra grande milanese scomparsa. E se nel rapporto non solo con l’architettura ma con gli architetti si può riconoscere uno dei motivi costanti del lavoro del fotografo, altrettanto stretti appaiono i legami con la cultura della visione nel suo complesso.
Si può immaginare che nelle sue radici di’immaginario “local” qualche parte l’abbia avuta la memoria di Sironi, massimo cantore di una metafisica aspra di Milano come città della modernità industriale agli albori del Novecento. Ma nella cultura della fotografia certamente un passaggio decisivo anche per Basilico fu la partecipazione a “Viaggio in Italia”, la storica mostra  curata a Bari, nella stessa Pinacoteca, da Luigi Ghirri con i suoi compagni baresi nel 1984, che innovava la nozione di paesaggio in fotografia. Lì Basilico espose appunto alcune visioni di edifici di Milano 1980, nelle quali era già tutta in nuce la “malinconia” (termine caro a De Chirico) con la quale ha stabilito il suo rapporto anche con il paesaggio naturale (come nelle “Sezioni di paesaggio italiano”, 1996 e nei “Porti di mare”, 1982-88) . Ma certamente la sua poetica si definisce nel rapporto con le città. Città che vanno da Berlino (2000) a Istanbul (20010) solo per citarne un paio fra tante che costituiscono un album di dimensioni inusitate nella cultura europea (fu l’unico fotografo italiano ingaggiato nella missione di ricognizione sistematica dell’Europa indetta dal progetto francese D.A.T.A.R). Da un punto di vista linguistico la sua fotografia è andata affinando nel tempo proprio la lucidità di sguardo largo, una sorta di “giusta distanza” che sottrae i corpi murari all’entropia dei sentimenti oltre che del tempo. Perché – ha ben scritto Roberta Valtorta in un saggio sull’autore – in tutte le città “ci sono presenze famigliari che consentono di affrontare lo smarrimento di fronte al nuovo”.  

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