giovedì 27 dicembre 2012

Prismi di luce e giochi ottici nel torrione di Molfetta (con un pioniere, Alberto Biasi)


Si rianima a Molfetta il Torrione Passari, deputato ad accogliere quando può installazioni d’arte contemporanea dialoganti con gli antichi spazi. Ora lo sprofondamento cilindrico della sua cisterna accoglie un disco su cui ruotano e s’incrociano variando di velocità d’intensità e di colore, raggi di luce. E’ uno dei “light prisms” che va producendo da mezzo secolo Alberto Biasi, pioniere e protagonista del vasto movimento internazionale di arte cinetica, programmata, ghestaltica, optical che investì anche l’Italia negli anni Sessanta-Settanta del Novecento, il tempo frenetico delle neoavanguardie. In particolare fu tra i fondatori a Padova nel 1960 del Gruppo N, e nel 1961 del gruppo Nuove Tendenze, ma ha continuato a sfornare invenzioni percettive sino a tempi recenti. Lo ha portato a Molfetta per la sua prima apparizione in Puglia il giovane critico molfettese Gaetano Centrone con la collaborazione milanese di Marco Meneguzzo e della galleria Ravizza. Negli altri spazi della torre si dispongono a parete strutture a forma di disco, di rettangoli, di rombi e di triangoli costruite su sottili sistemi di lamelle bianche e nere che danno vita ad esperienze di percezione e mutevole: apparati di astrazione dinamica che assumono forme in rilievo diverse – onde, gorghi, aloni, cristalli - col solo spostarsi del punto di osservazione. Qui l’effetto cinetico non è prodotto da congegni meccanici o elettrici ma è virtuale, si compone nell’occhio dello spettatore. Una terza suggestione è offerta, nella vicina chiesetta della Morte, da grandi pannelli rivestiti di vernice fosforescente e illuminati da lampade a luce di Wood, sui quali possiamo imprimere fuggevoli ombre del nostro corpo: remake di una installazione (Eco, 1971) dello stesso Biasi, che pare intenda donarla alla città di Molfetta.
Oggi simili apparati di meraviglie ottiche sono di comune consumo fra discoteche, ritrovi, lunapark, piazze e insegne delle metropoli occidentali e d’Oriente, film e moda persino. E’ come se si sia realizzato il sogno di “ricostruzione futurista dell’universo” preconizzato dal manifesto 1915 di Balla- Depero, più che il progetto tecno-democratico del Bauhaus con Moholy-Nagy (senza dire dei Rotorilievi di Duchamp, sempre lui). Ma nel tempo in cui Biasi agì con altri grandi protagonisti come Gianni Colombo, Getulio Alviani, Enrico Castellani, le molteplici espressioni che per comodità mediatica riduciamo sotto la dizione di Op Art, intendevano superare il soggettivismo espressionista della pittura informale –  come faceva in direzione opposta ed antagonista, la Pop Art. Celebravano la fusione progressista fra arte e scienza (le teorie della percezione diffuse da Rudolf Arnheim), il sogno democratico dell’arte collettiva, anonima, antimercantile. E soprattutto praticavano una idea di arte come “opera aperta” (Umberto Eco 1962), come processo che coinvolge  un pubblico non più passivo. Era in fondo una utopia di “morte dell’arte”, sua dissoluzione in più alto ordine interiore: così sperava il più autorevole sostenitore delle nuove tendenze, Giulio Carlo Argan. In Puglia ne fu assertore lo scomparso critico tarantino Franco Sossi anche con un attivo gruppo di artisti; nella ultima Biennale di Bari del 1966 feci intervenire autori come Mari, Castellani, Uncini in una stanza optical allestita da Mimmo Castellano.
Anche quella ultima utopia modernista si disfece presto, nella morsa fra Arte Povera e Transavanguardia. Oggi, nel Duemila dei revival, i suoi protagonisti defunti o viventi godono di omaggi prestigiosi in biennali e musei. Biasi però non pare un sopravvissuto. Ha saputo aggiornare con densità di stimoli quasi sensuali le provocazioni di fantasie percettive. Ha sollecitato dialoghi al limite del surreale con i luoghi, accendendo “arcobaleni invisibili” nel buio liquido della torre, evocando con le nostre ombre impresse nella luce i fantasmi dei defunti sepolti sotto la chiesa della Morte. Si è postmodernizzato. 

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