mercoledì 12 dicembre 2012

Penone, l'arte di rovesciare gli occhi


Il Respiro e il Soffio, lo Sguardo e la Pelle, il Cuore e il Sangue, la Memoria e la Parola. Sono le parole-chiave per definire il “corpo d’arte”di Giuseppe Penone (Garessio, Cuneo 1947), divenuto famoso per una idea di scultura come simbiosi totale fra soggettività emozionale dell’autore e la natura come  materia vivente. Termini evocati da Laurent Busine per leggere in modo unitario il complesso percorso compiuto dall’artista, nella imponente monografia curata dal critico francese per le edizioni Electa (408 pagg., 350 ill., 130 euro). Esperienza di suggestiva ambiguità, esplosa nell’ ambito delle neoavanguardie italiane degli anni Sessanta-Settanta del Novecento. Penone esordiva infatti nel 1969 sottoponendo  alberelli di un bosco a pressioni e inserzioni di materiali in ferro che sarebbero stati incorporati nella crescita, scorticando tronchi sino a mettere in luce gli anelli rivelatori dell’età vegetale, scavando travi sino a rintracciare tronco e rami originari, seppellendo foto di sé con tuberi di patate che si sarebbero impregnati del suo ritratto. Prove (tradotte in fotografie) subito inquadrate da Germano Celant nella “sua” Arte Povera . Ma gli schemi del movimento celantiano stavano stretti ad un autore che esaltava l’intuizione individuale distaccata dalle contingenze sociali e  storiche. Insieme con le pratiche processuali, con gli approcci alla concretezza della materia  -  motivi correnti nel tempo postinformale - Penone valorizzava sapienze antiche della scultura: la manualità e la tattilità, il fare artigianale, il plasmare e manipolare. Recuperava – sin dai primi Settanta - tecniche tradizionali come il calco e la fusione a cera persa, e materiali nobili come il bronzo e il marmo.
Per questo il passaggio per l’Arte Povera è appena menzionato nella monografia, nella quale si riconosce (specie nella lunga intervista con Benjamin Bullock) il progetto dell’artista di rivedersi alla luce dell’approdo attuale. Quello – consacrato da riconoscimenti internazionali come il ritorno a  Documenta 13 – che esalta la potenza installativa e la raffinatezza estetica di una scultura che investe con meraviglianti metamorfosi legni e pietre, foglie e radici, acqua ed aria. L’origine concettuale sta nel noto lavoro fotografico del 1970, Rovesciare i propri occhi (non a caso è in copertina del volume): l’artista con lenti a specchio come pupille, non vede ma fa vedere a noi il paesaggio che vi si riflette. Di qui la pratica dello spellamento, dello scavamento, del calco. Ecco le pressioni sulle palpebre e sulla pelle come “guanto del corpo” che – ingrandite in proiezione – si traducono in grandi textures grafiche e in nervature plastiche di cuoio o di marmo. Ecco i calchi di “pelli di foglie” (in preferenza di mitico alloro) traslati in tapisseries di bronzo, complicati nel 2000 da spine di acacia. Ecco la poetica dello scorrimento-ribaltamento del tempo: con le colate di bronzo o di resina rossa come parafrasi del sistema sanguigno; con i marmi di Carrara scavati a ritrovarvi le vene (Anatomie 1990); con gli sdoppiamenti di sassi levigati dallo scorrere di acque (Essere fiume, 1981), pietre di fiume che si posano anche come nidi fra rami d’albero come a Kassel. Altre operazioni chiamano in causa moti di acqua –Propagazione 1997 di centri concentrici creati col dito  -  e di aria (dai Soffi di creta 1978 aiSoffi di foglie 1979 sino a Respirare l’ombra, 1997-2002).
Si è accentuata insomma nel tempo una poetica dell’antropomorfismo che sublima particolari di natura in monumentali evocazioni di cuori, polmoni, cervelli, arti umani. Con variazioni infinite che sfociano talvolta in manierismo virtuoso. Ma al centro della invenzione dell’artista sta un vitalismo, o “animismo ragionato” capace di esaltarsi in metafore spazio-temporali. Come l’Albero delle vocali in bronzo che giace dal 2000 come tronco disteso nel giardino delle Tuileries a Parigi, al quale dedica un saggio Didier Semin. Attorno vi crescono cinque alberi veri di specie diverse, quasi a comporre un “pantheon della natura”. Lo conferma lo stesso Penone, autocelebrandosi in uno dei suoi pensieri che contribuiscono alla completezza di apparati del volume: “Nel mese di maggio del 1969 sono entrato nella foresta del legno e ho iniziato un cammino nel tempo lento, riflessivo e sorpreso, attento ad ogni piccola forma racchiusa nel fluido legno. E’ allora che questa cattedrale è sorta dal mondo muto della materia, per entrare in quello della scultura e dell’uso poetico del reale”.

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