giovedì 4 ottobre 2012

ARTE E FASCISMO, GLI ANNI TRENTA IN PALAZZO STROZZI A FIRENZE



In un paesaggio di rupi senza tempo sta in piedi un uomo seminudo, possente. Impugna un vincastro come bastone di lavoro e di comando. Volge lo sguardo severo a protezione della sua donna e dell’infante. Il monumentale quadro La Famiglia che Mario Sironi espose nella Biennale di Venezia del 1932, ora si staglia nel Palazzo Strozzi di  Firenze in apertura della mostra “Anni Trenta - Arti in Italia oltre il Fascismo”. Fascista fervente fu sempre il grande pittore, con ostinata coerenza, sino alla morte; eppure la dimensione epica e tragica della sua pittura ha varcato tempi politici e contesti critici. Nella stessa antisala si leva una spettrale testa senza occhi, levigata nel marmo come cera di maschera funebre. E’ una scultura eseguita nel 1929 da Adolfo Wildt  (già autore di teste di Mussolini) per celebrare l’aviatore Arturo Ferrarin protagonista nel 1928 della trasvolata atlantica Italia-Brasile, una delle imprese di esaltazione nazionalista ordinate dal “quadrumviro” Italo Balbo. Ma anche per Wildt l’adesione al nuovo ordine non ha sminuito la sua importanza nella vicenda del simbolismo europeo.
Con questi esempi, i curatori della mostra (capofila Antonello Negri) sembrano voler rileggere un decennio cruciale per la storia moderna del Paese non ignorando il sistema totalitario che lo dominò, ma andando “oltre”. Puntando sulla cultura identitaria espressa dal centinaio di opere di pittura e scultura esposte  insieme a mobili, ceramiche, film. Tentando di scegliere campioni rappresentativi della varietà delle proposte in campo. Fissandosi sui singoli autori, ciascuno “democraticamente” rappresentato da un’opera o al massimo due. Con un approccio enciclopedico anche nell’allestimento (e molte iniziative di divulgazione).
Ne risulta un percorso di qualità sostenuta, con punte di eccellenza, ma anche accidentato dalla difficoltà di stringere in sintesi una storia ricca e complessa. Sono rappresentati rapidamente ma degnamente i nomi più famosi sin dagli anni Venti, quelli del “ritorno all’ordine” e del Novecento sarfattiano: De Chirico, Carrà, Savinio, Morandi, Casorati, Severini, Campigli, Martini, Marini, Manzù... Sono segnalati i centri più importanti, Milano, Roma, Torino, Firenze-Bologna, con un occhio a Trieste “città di confine”, ma ignorando Napoli (come dire tutto il Mezzogiorno – solita storia). Un riguardo particolare è  riservato all’ambito toscano nel quale ritrovo – tra i Soffici e i Rosai -  un pugliese doc, Onofrio Martinelli: con due quadri rappresentativi del suo realismo magico che vengono da Bari (la grande Composizione di nudi 1938 sotto la quale trascorsi molti anni negli uffici dell’E.P.T. e lo strepitoso Ulalume 1936, dal nipote Nicola Martinelli). Emerge poi la cura del regime per l’arte pubblica e celebrativa, con i cartoni di grandi murali realizzati da molti artisti, Sironi in primis. Intriganti anche i cenni sulle tendenze razionaliste-novecentiste in architettura e arti applicate, e sulla modernizzante comunicazione di massa (vedi box).
Ma il cuore problematico ed anche emozionale della mostra sta nelle sale che documentano la vivacità dei contrasti che percorsero l’arte, contrasti di generazioni e di tendenze. Dopo l’ultima rassegna generale sugli anni Trenta (Milano 1982) sono straripati saggi e mostre particolari. Sappiamo degli ordinamenti corporativi e istituzionali (Sindacali, Quadriennale, Biennale) conferiti dal regime al sistema dell’arte, come della sua tolleranza o indifferenza verso gruppi e tendenze. Gli stessi gerarchi si dividevano fra protettori, mediatori, oppositori, con crescente virulenza man mano che il fascismo precipitava dal culmine della popolarità (l’Impero coloniale, 1935-36) al disastro tragico della guerra. A Firenze possiamo ricostruire attraverso le singole presenze i vari schieramenti. Il fronte espressionista-realista con la Scuola romana (Scipione, Mafai, Pirandello), la Corrente milanese (Sassu, Birolli, Migneco), i Sei di Torino (Menzio, Paulucci, Levi) il gruppetto siciliano intorno a Guttuso. Gli esiti futuristi fra l’aeropittura e Prampolini (è venuto meno un quadro di Depero). L’arco ampio degli astrattisti,  geometrici (Radice, Reggiani) lirici (Licini, Munari) platonici (Melotti). Mentre Lucio Fontana transitava genialmente dal barocchismo cromatico al minimalismo spaziale. Una scena di vitalità  creativa che scatenò non solo la maggioranza tradizionalista (Ugo Ojetti sul “Corriere della Sera”, 1933: “Raramente si sono veduti tanti quadri e sculture lontani dalla bellezza, dal vigore e dalla salute”). La diatriba si fece anche politica, dopo le leggi razziali del 1938  e la mostra su “l’arte degenerata” allestita a Berlino dal nazismo nel 1937 (esempi a Firenze: Grosz, Dix). De Chirico, Carrà, Birolli, Fontana: tutti esponenti di un’arte “straniera bolscevizzante e giudaica” tuonò nel 1938 il gerarca Telesio Interlandi  sul “Tevere”. E il premio Cremona promosso dall’hitleriano federale Farinacci si scontrò con il premio Bergamo promosso dal ministro dell’Educazione Bottai. Qui nel 1941, a guerra in corso, la Crocifissione picassiana esposta dal giovane Renato Guttuso annunciò che l’arte e la società italiane andavano, davvero, “oltre il fascismo”. Recuperavano l’Europa.
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Per i più anziani è un attentato al cuore la “sala radio” allestita all’interno della mostra sugli Anni Trenta in Palazzo Strozzi a Firenze. In cuffia si possono ascoltare l’uccellino che annunciava le trasmissioni EIAR, le voci dei Quattro Moschettieri, Tito Schipa, Rabagliati, il Trio Lescano. E discorsi come quello del Duce che proclamava la guerra, 10 giugno 1940 (lo ascoltai accovacciato sotto una monumentale radio Marelli). E’ nota la cura posta dal regime per le comunicazioni di massa, come il cinema. Nella mostra scorrono (senza sonoro) sequenze dei mitici film “dei telefoni bianchi”, puntando l’attenzione sugli interni di arredo “moderno”: in sintonia con foto che documentano gli ambienti presentati nelle Triennali milanesi del 1933 e seguenti. Modernizzazione che si manifesta nello stilismo déco delle ceramiche, da Tullio d’Albisola a Gio Ponti. Ma c’è anche l’apparizione “serrata e prepotente” (Persico 1930) dei mobili in ferro: testimoniata da brevi sequenze di sedie con struttura tubolare (Pagano, Terragni…) e lampade (Baldessari, Albini…). Spie sul controverso rapporto fra sogno romanizzante del regime e “l’ordine nuovo” dell’architettura razionalista, evocato nelle appendici al catalogo Giunti e in altre iniziative collaterali. Un impatto immediato è offerto dalla stazione di Santa Maria Novella, combattuta fra nitore spaziale e  monumentalismo (Michelucci 1933-35). 

La mostra è aperta sino al 27 gennaio 2013, orari 9-20 (giovedì 9-23), ingresso 10 euro, ridotti 8,50-7,50. 

Info: tel.0552645155

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