sabato 28 settembre 2013

A Terlizzi i volti sospesi per strada da Cosmo Laera

Da sabato scorso, una strada stretta e lunga nel centro storico di Terlizzi è occupata da una popolazione volante di volti fotografici sospesi in alto su pannelli quadrati, su più file tese fra un muro e l’altro, quasi panni a stendere o stendardi poveri. Al centro della strada l’ingresso ad un vano ipogeo è sbarrato dalla proiezione di un video che rimanda a scatti come di diapositive, su una colonna sonora a ritmo incalzante, gli stessi volti inframezzati da particolari di interni ed oggetti domestici. L’effetto è piuttosto straniante, perché i visi sono quelli degli abitanti e frequentatori della stessa via e di un paio di stradine adiacenti. E’ come se i ritratti scendendo da lassù prendano corpo e vita – un po’ come accadeva con la vernice magica del sor Lambicchi, striscia famosa del Corriere dei Piccoli ai tempi della (mia) infanzia.

L‘operazione è stata realizzata da Cosmo Laera, il noto fotografo pugliese, per la seconda puntata di un progetto ideato e curato da Maria Vinella per l’Edicola RaRa di Paolo De Santoli, la porta-finestra dello spazio sotterraneo che l’artista-gallerista terlizzese usa per apparizioni sul fronte-strada, sulla scorta di iniziative analoghe come a Roma l’Edicola Notte di H.H.Lim. L’intelligente ciclo “Insight” di cinque mostre- eventi con altrettanti protagonisti fu aperto da una suggestiva performance di Tarshito nel giugno scorso. La nuova personale che s’intitola “Vicino a te, vicino a me” segna un passaggio molto interessante nel percorso maturo di Laera. Il fotografo di Alberobello si è affermato per una serie cospicua di esplorazioni del territorio pugliese e non solo. Ma ha assunto rilievo anche il ritratto, non come “genere” di rappresentazione fisiognomica o indagine socio-antropologica ma in quanto evocazione di “incontri per immagini”. Il prodotto più rilevante sinora è la serie di oltre cento ritratti di operatori nel sistema della fotografia – artisti, critici, curatori, estimatori, amici – incontrati anche nel corso delle meritorie rassegne di cultura fotografica d lui organizzate.
Ma lì gioca l’identità riconosciuta, la notorietà spesso internazionale dei personaggi ripresi in bianconero, in pose diverse, in campo medio e in contesti spaziali significativi del loro lavoro o delle occasioni di rapporto. A Terlizzi invece la ripresa è in primissimo piano e di profilo, senza spazio contestuale, in colore basso come pallore di pelle. Propone personaggi anonimi, in gran parte di età avanzata e di condizione umile, con sguardi sfuggenti, ambiguamente rivolti ad un vuoto. Così il ritratto fotografico si dà come “chiave di accesso ai sentimenti”, e la folta installazione che ne risulta assume valenza potenzialmente processuale e relazionale: il fotografo ha cercato i suoi personaggi, è entrato nelle loro case, ha messo in posa i loro pensieri smarriti. I “microcosmi di vicinanza, relazione, condivisione” (Vinella) sono incontrabili a Terlizzi in via De Cristoforis, sino al 14 ottobre.

sabato 14 settembre 2013

Un pioniere pugliese della Poesia Visiva: addio a Michele Perfetti

Addio a Michele Perfetti, pioniere pugliese del movimento italiano di Poesia Visiva sin dai primi anni Sessanta. Aveva 82 anni, era nato a Bitonto nel 1931, aveva vissuto a Taranto sino al 1973 dove fu protagonista dei fermenti di ricerca artistica che avevano al centro il Circolo culturale dell’Italsider (altri tempi). Poi se n’era andato ad insegnare a Ferrara dove ha operato sino ad ora (divenendo anche preside del locale Liceo Scientifico) e lì si è spento nel sonno – così mi annuncia da Taranto l’artista Vittorio Del Piano, suo sodale in quegli anni fervidi, il quale ha appreso solo ora del decesso che risale addirittura al giugno scorso. Un addio tardivo, dunque, ma necessario per risarcire l’oblìo sceso su un artista che ha avuto ruolo primario in una delle vicende più intriganti delle neoavanguardie nazionali fra i Sessanta e i Settanta. Perfetti fu tra i primi aderenti al  “Gruppo 70” fondato a Firenze nel 1963 da Miccini, Pignotti, Chiari e allargato a partecipazioni eccellenti come Isgrò, Bussotti, Ketty La Rocca, Simonetti, Sarenco, Spatola…. Fu come il battesimo della “poesia  visiva”, che contaminava in frantumata sintassi gli apparati iconici dei massmedia con scritture manuali o tipografiche. Ricerche e proposte di scrittura visuale erano già in corso con varie denominazioni (senza dire dei precedenti storici, dai calligrammi di Mallarmé e Apollinaire alle “tavole parolibere” futuriste). Ma il gruppo che faceva capo a Firenze si connotò per l’apertura alle tecnologie moltiplicate e per la carica polemica nei confronti della società dei consumi, in competizione-opposizione alla Pop Art anglosassone. “La poesia visiva colpisce alle spalle, è una quinta colonna nelle file nemiche dei massmedia”, proclamavano congiuntamente Perfetti e Miccini nel 1971. E in una intervista del 2009, per una delle tante mostre che nell’ultimo decennio hanno rivisitato quei movimenti, Michele ricordava con una punta di nostalgia: “ Noi avevamo l’utopia di cambiare il mondo attraverso la poesia…la poesia visiva costringe a guardare il mondo con occhi diversi”.
Carica utopica che lui espresse sin dagli anni tarantini, con una serie di iniziative. La personale 1967 “…000+1 – Poesie tecnologico-visive” nel Circolo Italsider. La collettiva nazionale “Comunicazioni visive” curata con Gianni Iacovelli a Massafra nel 1968. Una sezione internazionale nell’ambito della mostra “Co/incidenze” sempre a Massafra 1969. La personale e il libro “Plastic City” di nuovo al Circolo tarantino nel 1971. Nel 1972 a Bari la mostra di Poesia Visiva nella neonata galleria Centrosei  e un’altra personale. La nascita a Taranto del “Centro sperimentale Punto Zero” con Vittorio del Piano nel 1973 e gli “Innesti” con Vitantonio Russo. Solo per dire dei principali interventi nelle  nuove proposte che si agitavano fra Taranto Lecce e Bari (una ricostruzione di quel periodo pugliese è stata fatta da Antonio Lucio Giannone nel libro-catalogo della mostra “Di-segni poetici” che ha inaugurato nel 2011 a Matino nel Salento il MACMA, Museo di arte contemporanea dedicato proprio a collezioni di poesia visiva).
Da Ferrara, attivissima sino ai tempi ultimi è stata la presenza di Perfetti in tante oper/azioni  di poesia visiva in Italia e all’estero, Biennale di Venezia compresa. Con una personale cifra segnata da fantasia ironica, meno aggressiva e più trasognata col passare degli anni. Giocata sul fluttuare nel vuoto di frammenti sempre più semplificati e decantati. “Al di qua della parola al di là dell’immagine” fu la sua dichiarazione di poetica premessa come titolo-slogan a gran parte delle mostre e pubblicazioni dal 1981 (laureato in filosofia, produsse parecchi scritti teorici). Le nostre strade si sono incrociate raramente dopo i Settanta. Ne scrissi l’ultima volta l’anno scorso, in occasione di ArteLibro a Bologna, dove erano esposte le pionieristiche pubblicazioni con suoi contributi curate a Bologna fra il 1965 e il 1968 da un editore anche lui di origini tarantine, Riccardo Sampietro. Ed è una sensazione amara e struggente (questione di età) ripensare a tante avventure corse e interrotte per la cultura in Puglia, ed ai suoi protagonisti dimenticati anche per colpa nostra. Ma Michele Perfetti ci richiama all’esorcismo salvifico dell’ironia. Nel 1966 aveva fatto eruttare da un water parole ritagliate come amore, sogni, verità. Nel 2007 invitava ancora ad uno svagato ottimismo della volontà: “Oggi può essere un gran giorno: datti un’opportunità”. Ma contro un profilo di donna si stagliava un biglietto di lotteria.

Gli "ambienti sensibili" di Paolo Rosa, il pioniere di Studio Azzurro. Un ricordo dalla Pugli

Mi addolora la notizia della scomparsa improvvisa di Paolo Rosa, leader e teorico del gruppo Studio Azzurro pioniere in Italia della videoarte interattiva. E' morto per infarto, a soli 64 anni, mentre era in vacanza a Corfù. Avevamo un lungo rapporto che posso definire di amicizia, prima che di stima professionale. Ci eravamo visti in giugno alla Biennale di Venezia; nei primi giorni di agosto era stato a Polignano, per un workshop al Museo Pascali. Ne ho scritto in fretta un ricordo - molto concentrato sui suoi rapporti con la Puglia e col Mediterraneo- che esce domani sulla Gazzetta. Lo riverserò solo dopo, come sempre per correttezza nei confronti del mio giornale, su facebook. Intanto addio amico Paolo.


Il mondo dell’arte è in lutto, anche in Puglia, per la scomparsa improvvisa di Paolo Rosa, leader di Studio Azzurro, il  gruppo italiano che aveva fondato con pochi amici nel 1982, pioniere in Europa di videoarte interattiva. E’ morto per infarto l’altra sera a Corfù mentre era in vacanza, aveva 64 anni (era nato a Rimini nel 1949). Pochi giorni prima, il 5 e 6 agosto, aveva tenuto nel Museo Pascali di Polignano a Mare un workshop per un folto gruppo di giovani nel quale aveva raccontato la sua avventura e le sue idee sull’arte oggi. Quasi un testamento involontario, ultimo atto di un lungo rapporto di stima e di amicizia con l’ambiente pugliese. Era stato consacrato nel 2004 con l’attribuzione a Studio Azzurro del premio Pascali. Ne resta come testimonianza permanente l’installazione interattivaFrammenti di una battaglia (ispirata dalla Battaglia di San Romano di Paolo Uccello) acquisita dal Museo dopo aver vinto il primo premio alla  Quadriennale di Roma 1996. Il rapporto con la Puglia era iniziato nel lontano 1987, quando Studio Azzurro partecipò alla rassegna “Artronica” curata a Bari in Santa Scolastica da Anna D’Elia, ribadito nel 1990 a Bitonto per la mostra “La Pietra e i Luoghi” con Franco Sannicandro e ancora a Bari nel 1996 in “Virtual Light”, rassegna di videoarte e arte interattiva organizzata da Antonella Marino in Palazzo Fizzarotti.
Ci vedevamo spesso in giro per mostre – ne scrissi per esempio per la loro grande antologica del 1999 nel Palazzo delle Esposizioni a Roma. Nel giugno scorso ci eravamo rincontrati alla Biennale di Venezia dove Studio Azzurro era stato invitato ad allestire nel neonato padiglione del Vaticano un complesso “ambiente sensibile” che sviluppava, anche presentando in video storie di gente umile, il tema della Genesi. Riconoscimento prestigioso, che Paolo mi aveva sottolineato – mentre mi guidava nella visita- con un’ombra di pacata amarezza negli occhi cerulei: ”Dovevamo  attendere mons. Ravasi e la Chiesa – mi disse – per essere invitati alla Biennale di Venezia”. Normale disattenzione italica per un gruppo che era stato subito invitato a Documenta Kassel dopo la spettacolare videoinstallazione presentata nel 1984 proprio a Venezia, in Palazzo Fortuny: un Nuotatoreche attraversava a lunghe bracciate 24 monitor…
Da lì, una lunga serie di coinvolgenti esibizioni in Italia e all’estero con i compagni di avventura, Fabio Cirifino, Leonardo Sangiorgi, Stefano Roveda.Troppe per essere ristrette nel sintetico ricordo di un amico “lucido e amabile” come ha ben detto Angela Vettese. Apparizioni magiche per un pubblico chiamato ad interagire con tocchi di mani e scalpiccio di piedi, i loro “ambienti sensibili” sviluppavano spesso un leitmotiv di fondo: la rivisitazione della storia e della cultura del nostro Paese come DNA da rivitalizzare con la tecnologia più avanzata. Proposta confermata nella Sensitive City per l’Expo di Shanghai 2010 e per la mostra sulle Fare gli  italiani da lui diretta nell’ambito delle celebrazioni per l’Unità d’Italia. Paolo era anche l’ideologo, il teorico del gruppo. Questa intuizione aveva trasmesso nell’insegnamento a Brera – l’Accademia dalla quale era uscito come studente – e in una serie di interventi e di libri. Ultimo quello scritto con Andrea Balzola, L’arte fuori di sé. Un manifesto per l’età post-tecnologica (Feltrinelli 2011). Il progetto era di coniugare “i piaceri e le bellezze infinite del naturale e dell’antico con le contraddizioni invasive della modernità”.
Di questa idea – matura rivisitazione della cultura dell’età postmodern – era parte fondante il rapporto, culturale ed affettivo, di Paolo Rosa con il Mediterraneo. Si era rinsaldato dopo le Meditazioni mediterranee compiute nel 2002, con cinque videoinstallazioni in Castel Sant’Elmo a Napoli. Da esse sortirono i Nodi mediterranei proiettati due anni dopo a Polignano a Mare, per il premio Pascali, alla presenza di Nichi Vendola. Dopo il workshop di agosto Rosalba Branà, direttrice del Museo, gli aveva affidato la progettazione di una sala virtuale su Pino Pascali, il grande pugliese morto tragicamente a 33 anni. Al cospetto del Mediterraneo si è sciolto all’improvviso anche il nodo della sua vita. Strana e dolce congiunzione di interrotti destini.

Io, Marylin e la torre


Dalla mia strana villetta con tetti spioventi a tegole rosse scendo di solito a fare svogliatamente un bagnetto libero fra gli scogli di Torre Cintola, sulla strada per il Capitolo di Monopoli. C’è un breve tratto di scogliera alta, un cartello avverte di  pericolo di dissesto idrogeologico, nessuno ci fa caso. Qualcuno fa picnic all’ombra della torre semidiroccata, l’hanno rimessa su in parte e poi abbandonata. Quasi accanto c’è un bar che è cresciuto pian piano, prima c’era un baracchino per le cozze. Il baracchino si è spostato più in là e si è ingrandito, ha lunghe tettoie di legno quasi a ridosso di un villaggio turistico a palle bianche che ora è chiuso. E’ fallito dopo anni ruggenti, proprio quando gli avevano spianato di fronte un vasto parcheggio con una stradina ciclabile che non porta da nessuna parte. Il bar invece si è esteso scendendo sugli scogli con terrazzini e divani, ci hanno piantato persino una palmetta. Io ci  passo qualche volta col pretesto di farmi uno spritz, in realtà vado a trovare la mia amica Marylin.
Mi siedo ad un tavolino e lei mi sorride da una grande foto in bianconero affissa su una parete esterna del chiosco, dalla parte che guarda il mare e l’oriente. Non c’è niente di morboso nel suo protendersi verso di me dalla scollatura vasta e morbida, nessuna tentazione da dottor Antonio, come la felliniana Anitona gigantesca che invitava a bere più latte. No, con Marylin siamo cresciuti insieme. Pochi giorni fa, il 5 agosto, era l’anniversario della sua morte. Quella sera del 1962, quando giunse in redazione la notizia del tragico rinvenimento del suo mitico corpo spento su un letto disfatto, mi chiesero di scriverne in prima pagina. Alla Gazzetta ero entrato da pochi mesi, in prima pagina di solito nessuno poteva scrivere se non il direttore Oronzo Valentini. Non ricordo cosa scrissi, probabilmente qualcosa di patetico, piacque a parecchi. “Dovresti scrivere sempre di queste cose” mi disse Cettina, la moglie di Michele Campione, incontrandomi il giorno dopo come ogni estate, alla Baia di Palese.
Negli anni Novanta andai a Los Angeles con Flavia Pankiewicz. Lessi su una guida che dalle parti del mio albergo – era vicino al campus dell’UCLA, l’Università californiana – doveva stare il luogo dove Marylin Monroe era sepolta. Ci misi due ore per trovarlo, nessuno sapeva o forse non capivo. Era un giardinetto chiuso fra un garage multipiano, poche tombe di vip più o meno sul prato o alle pareti, anche Truman Capote credo. Marylin stava in un loculo dentro il muro di cinta, solo una lapide di pietra bianca col nome e le date 1926 -1962,  lì sotto una panchinetta con l’iscrizione “Amici di Marylin”, niente fiori, non più il fascio di rose che si favoleggiava mandasse ogni giorno Joe Di Maggio. Avrei voluto portargliele io, una sola rosa intendiamoci, ma non c’era ombra di fioraio per chilometri. Gliel’ho ricordato andandola a salutare nel pomeriggio torrido di questo 5 agosto e lei mi ha ammiccato, così va la vita.

Luigi Presicce, dal Salento magico alla contemporaneità



Re Salomone che visita i tagliatori delle pietre per costruire la Cupola della Roccia di Gerusalemme, e i tagliatori che rispondono battendo colpi di scalpello, a ricordare la confusione delle lingue nella Torre di Babele. Confusione moltiplicata da citazioni sceniche dalla Grosse Halle eretta nella Berlino nazista dall’architetto Albert Speer. Questo il nucleo della performance tenuta il 27 luglio nel Palazzo Danieli a Gagliano del Capo da Luigi Presicce, artista salentino in grande ascesa (è nato a Porto Cesareo nel 1976, vive – per quel poco che ci sta – a Milano). Alla performance “Le tre Cupole e la Torre delle Lingue” organizzata dall’associazione Capo d’Arte poteva assistere uno spettatore per volta, e per soli due minuti. Più o meno quel che avviene in tutte le sue opere realizzate dal 2007 ad oggi. Quasi a sollecitare un rapporto personale di meditazione  con la liturgia esoterica che l’artista mette in scena. Se ne fa sacerdote con vista occlusa da una maschera calata sulla fronte – di solito una piramide bianca. Una liturgia ridotta a poche  mosse, se non addirittura condotta a fissità assoluta e prolungata, da tableau vivant.
Così avveniva nella performance “La Benedizione dei Pavoni” tenuta a Porto Cesareo nel 2011 alla vista solo di due bambini. Lui stava per sei ore immobile in un gazebo con pavoni, in tunica bianca e grembiule rosso massonico, circonfuso da un’aureola di luminarie paesane. Tradotta in video ed esposta a Firenze nella mostra di sedici “Talenti Emergenti”, valse all’autore il premio internazionale  indetto dalla Fondazione Palazzo Strozzi. Consisteva nella edizione di una monografia a cura del Centro di cultura contemporanea Strozzina, organizzatore della rassegna. Pubblicata da poco, costituisce un prezioso e raffinato contributo alla conoscenza di una personalità complessa e anomala nel panorama dell’arte italiana di oggi: con saggi di Franziska Nori e Barbara Gordon e schede di opere dal 2009 al 2012 illustrate con apparati di tavole a colori. Ne emerge la figura  di un artista-sciamano (come Dalì, Ontani, Beuys) ispirato da “Mistici e Maghi” (raccolti in un suo libro d’artista del 2009). Ovvero “figure carismatiche o icone religiose e pop, personaggi e luoghi di derivazione massonica, esoterica o politica” (scrive Franziska Nori) che popolano un “gioco di rimandi tra arte e vita”.
Trapassando dalle scene fisiche a video e fotografie, si costituiscono degli apparati teatrali vissuti da personaggi della storia e della cronaca nell’ambito di scene dell’arte, medievale, rinascimentale, barocca –  Giotto in specie – e di repertori allegorici di sette e di religioni. Un mixage eseguito con esatti ritmi interni, con lucidità ieratica, che richiede o crea “intimità, solennità, intensità e risonanza” (Barbara Gordon). Una impenetrabile misura di allucinazione iconica che affonda radici antropologiche e culturali nel Salento magico, popolare e bizantino, per risalire al Carmelo Bene di Nostra Signora dei Turchi che lo emozionò da ragazzo. Presicce torna spesso nella sua terra per ambientarvi molte delle oper/azioni documentate nel libro, col team ormai consolidato di giovani collaboratori, anzi co-autori. Ma la svolta alla sua ricerca (iniziata dopo l’Accademia di Lecce come pittore di fantasia grottesca) risale –  lui stesso dichiara – ai workshop 2007-8 condotti da Joan Jonas (Fondazione Ratti a Como) e Kim Jones (Viafarini, Milano), artisti americani che hanno rinnovato la performing art in chiave concettuale - surreale. Così le radici dell’Origine sono rivitalizzate da Presicce attraversando percorsi della Cultura contemporanea. Al libro in edizione bilingue, l’artista pugliese ha premesso in epigrafe il lamento di un brigante meridionale, Michele Caruso: “Ah, Signurì, s’avesse saputo  legge e scrive avrìa distrutto lo genere umano”. Nella traduzione inglese a fronte, sembra Shakespeare: “Oh Sir, had I known how to read and write, I would have destroyed the human race”.
    Giulia Piscitelli

Vita nuova a Napoli per il MADRE, il Museo Donnaregina per l’arte contemporanea. La Fondazione di cui è unico socio e finanziatore la Regione Campania prova ad uscire definitivamente dalla lunga crisi che aveva portato il Museo sull’orlo della chiusura. Lo fa presentando il primo atto di un progetto complesso, affidato alla direzione del giovane Andrea Viliani con uno staff di collaboratori anche loro giovani,.Alessandro Rabottini ed Eugenio Viola. Si fonda su una offerta di mostre insieme con proposte di diversa fruizione degli spazi museali. Tre personali: l’artista tedesco Thomas Bayrle (Berlino 1937), l’artista messicano Mario Garcia Torres (Monclova 1975) l’artista napoletana Giulia Piscitelli (Napoli 1965). L’avvìo del riassetto della collezione permanente: aggiungendo opere nuove a quelle rimaste dopo il parziale svuotamento conseguente alla fine della contestata direzione Cicelyn. Opere donate da artisti (come la preziosa collezione di film e video di Gianfranco Baruchello) o prestate da fondazioni e gallerie napoletane, nello spirito di ricostruire storie e occasioni della contemporaneità internazionale passate per Napoli. Fra i nuovi prestiti, i copertoni della storica installazione “Yard” di Allan Kaprow (1961) accumulati nella corte, che grandi e piccoli possono movimentare a piacere (come avvenne nel fossato del castello di Bari per la mostra curata da Achille Bonito Oliva nel 2010). Infine, l’operazione “Re_pubblica MADRE”: il salone a pianoterra adibito ad agorà partecipativa. Il pubblico può lasciare commenti giudizi e proposte da una cabina fornita di computer o affiggendo foglietti su un grande pannello, e avvalersi di un’area wi.fi (non ancora attiva).
Alcuni appunti sulle tre personali. Quella di Thomas Bayrle ambisce al maggiore richiamo mediatico: fa conoscere in pratica per la prima volta in Italia questo anziano artista, noto per apparizioni in diverse rassegne internazionali. A Documenta Kassel 2012 spiccava il suo gigantesco disegno di un aereo: lavoro “storico”, del 1984, affidava la sua singolarità al fatto che l’immagine era formata dalla moltiplicazione modulare di aerei in formato micro. Come dire: soggetto pop, texture da design grafico, effetto visivo optical, intenzionalità da arte concettuale. Questo singolare impasto linguistico viene dispiegato a Napoli nelle interessanti variazioni praticate dall’artista dai Sessanta ad oggi. La sua visione critica della società di massa e metropolitana, maturata in clima francofortese – tra Marcuse e impegno politico marx-leninista – si riversa in virtuoso sperimentalismo di griglie formali, con ripetizioni alla Warhol e strutturalismi minimal, con textures iconiche e architetture installative. Passa dalla ossessione degli oggetti di consumo a “ritratti” pre-digitali, all’incubo macchinista di automobili e autostrade. Compie mirabolanti trasformazioni di segni eguali in sensi diversi, come un Arcimboldo modernista. Ma si fa prendere troppo dal gioco, l’ironia contestativa è spesso ingabbiata in teutonica sistematicità. “Un pop grigio”, suggerisce Jorge Heiser, autore di uno dei saggi nel catalogo monografico edito in Italia da Electa (la mostra è in collaborazione con Wiels - Contemporary Art Centre di Bruxelles).
Una grande mobilità di sguardo sulla realtà sociale del suo territorio ispira invece il pionierismo di Giulia Piscitelli, emersa sin dai Novanta. La traduce in libera produzione di apparati iconici a forte gradiente di fissità totemica, fra assunzione postduchampiana di oggetti isolati o in serie installative, e fotografie e video che distillano la quotidianità in allucinazione tranquilla. L’attenzione al territorio predicata dal nuovo corso del Madre trova con questa personale dedicata ad una artista di Napoli una coerente attendibilità, quasi a esorcizzare il sospetto di concessioni al localismo. Un sofisticato concettualismo poetico circola infine nelle stanze in cui Mario Garcia Torres riprende ed estende un progetto presentato a Kassel l’anno scorso: la sua ostinata ricerca sulle tracce del mitico One Hotel – una sola stanza con giardinetto – che il nostro Alighiero Boetti aprì a Kabul negli anni Settanta. Una viaggio nella memoria che si fa  anche interiore, con video e finte lettere che sfociano in assunzione d’identità, dialoghi immaginari, quasi ricalcando lo sdoppiamento compiuto in vita da “Alighiero & Boetti”, idealmente presente con diverse sue opere. Non è la più popolare fra le mostre del MADRE, certamente è la più intensa. Dice molto (a chi vuole ascoltare le voci dell’arte) su movimenti e smarrimenti del nostro tempo.
PIETRO MARINO

* Nel MADRE di Napoli (via Settembrini 79) sono aperte le mostre di Thomas Bayrle (sino al 14 ottobre) e di Mario Garcia Torres e Giulia Piscitelli sino al 30 settembre. 
Orari: 10—19.30, domenica 10-20, martedì chiuso. 
Ingresso 7 euro, ridotto 3,50, lunedì gratis. 
Info: tel. 081 19313016

Le cose che non accadono (secondo Raffaele Fiorella)

Non ha perso la voglia di sperimentare, di cercare nuove strade Raffaele Fiorella (Barletta 1979). Anche in una fase ormai abbastanza lunga nella quale hanno ottenuto consensi larghi le sue finestrelle e i suoi teatrini composti con doppio sguardo di figurine sagome in nero contro fondi video. Scene che hanno variato da sguardi misteriosi e maliziosi su interni di vita quotidiana a inquietudini ambientaliste, vaghi presagi di apocalisse, sino ad esplosioni nel fantastico. E con sempre più impegnative imprese di installazione complessa, come si è visto quest’anno con la personale all’interno di un capannone industriale a Barletta e col progetto finalista nel concorso indetto a Napoli per un’opera permanente in Castel Sant’Elmo (mostra ancora in corso).
Ora, nella nuova personale a Bari si è lanciato in diversa dimensione linguistica, con prove di computer grafica tradotte in una serie di immagini a stampa e in video. Dalla libera elaborazione digitale di forme-base circolari e ovali sono nati lucidi volumi di astronavi a palla o a sigaro che atterrano un po’ goffamente tra grafismi di alberelli stecchiti. Oppure improbabili radici spuntano dagli oblò e si allungano su terreni aridi, paesaggi desertici di analogo inerte candore. Proprio ghiacciai talvolta, banchise polari come quella su cui è incagliato una specie di dirigibile. Le navi spaziali sono segnate in abbondanza ritmica da finestrelle, portelli da cui cala una scaletta di corda, ma non c’è alcun indizio di presenze umane, terrestri o alieni che siano.
Scenari sintetici di “cose che non accadono” (titolo della mostra) rinviano a forme primarie di una fantascienza “da libri mai letti” – come dice l’autore al presentatore Lorenzo Madaro – con residui di umori ecologisti che avevano informato prove precedenti. Un immaginario sterilizzato da  passioni, che si consegna con fredda ironia formale ad una condizione di metafisico stupore. Qualche flusso d’inquietudine scorre invece nel video che evoca – sempre in finzione digitale – un’acqua alluvionale che trascina flemmaticamente sedie tavoli e oggetti. Non sembra effetto di naufragio, piuttosto una libera esondazione della fantasia dalla costrizione di schemi rassicuranti, una fuga dal rischio di stagnare nella maniera. Nella galleria Museo Nuova Era (via  dei Gesuiti 13) sino al 17 giugno. 
Orari: 17-20, domenica chiuso.  
Info: tel. 0805061158, 3480352614.

Commiato da Adele Plotkin, un'americana a Bari. La pittura come sogno "oltre il muro"


Colpisce dolorosamente gli ambienti della cultura la scomparsa a Bari  di Adele Plotkin, la valente pittrice americana  per nascita (Newark 1931) e formazione, incardinata a Bari da mezzo secolo dove si era affermata fra i più interessanti esponenti dei fermenti di arte nuova che percorrevano la Puglia negli anni Settanta. Vi era giunta come moglie di Carlo Ferdinando Russo, l’illustre grecista ora novantenne che è stato titolare per oltre un ventennio della cattedra universitaria di Letteratura Greca e che da Bari ha diretto la prestigiosa rivista letteraria “Belfagor” fondata dal celebre padre Luigi Russo. Lei scese in Italia per una borsa di studio Fullbright dopo la laurea conseguita nella Yale University dove era stata allieva di Joseph Albers, uno dei grandi protagonisti del Bauhaus emigrati negli USA. Dopo soggiorni a Venezia (in contatti con Vedova e Tancredi) e ad Ischia dove conobbe “Lallo”, tenne la prima personale nel 1970 a Roma, presentata da Cesare Vivaldi, autorevole critico della neoavanguardia.  L’anno seguente esordì a Bari nella galleria La Bussola di Elia Canestrari, con presentazione di Enrico Crispolti. Proponeva forme di sentore organico, dai toni sull’ocra che davano di terra e di vegetazioni, fluttuanti in concatenazioni e grumi nello spazio. Rimandavano ad Arshile Gorky,  il pittore di origine russa -ebrea  (come la sua famiglia)  che aveva avuto ruolo decisivo nell’avvìo di Pollock e dell’Espressionismo astratto a New York.  La lezione astrattista di Albers era più evidente nelle esperienze che riversò nel corso di Psicologia della forma e Teoria della percezione che le era stato affidato nello stesso 1971 dalla neonata Accademia di Belle Arti di Bari. Ci eravamo molto impegnati, il direttore Roberto De Robertis ed io come docente di Storia dell’Arte, per istituire quel  corso sperimentale come fiore all’occhiello di un progetto di moderna didattica,  e per assegnarlo – superando diffidenze e resistenze – ad un’artista “forestiera” portatrice di ricerche linguistiche nuove non soltanto per la cultura accademica. Incarico che la Plotkin resse con rigore ed amore sino al 1996, formando intere generazioni di allievi, anche con successivi master.

Nella sua pittura, liberi echi da  Albers potevano tornare a cogliersi  con la personale del 1977 nel  Centrosei di Nicola De Benedictis (storia ricostruita di recente dalla ricerca guidata in ambito universitario da Christine Farese Sperken): campiture geometriche di colori acrilici su cui galleggiavano efflorescenze vegetali, debordanti anche sui muri . Dagli Ottanta si era rivolta ad una forma-base, il cerchio, e ad un gamma di variazioni sul blu-verde  con collages di carte dipinte a tempera. Sino a forme irregolari, come nuvole o amebe, evocatrici di cieli vaganti o mappe di arcipelaghi senza nome, in sempre più sintetica liquidità di spazi. Evoluzioni seguite da  critici del calibro di Dorfles, Menna, Rosci, Meneguzzo, Masoero. Ma con apparizioni sempre più rade, scandite da una scelta di riservatezza di vita in comune col  suo compagno e da selezionate frequentazioni intellettuali . Oltre ad alcune partecipazioni a mostre collettive, le ultime personali sono state quelle del 1997 a Bari (galleria Museo Nuova Era) e del 1998 a Bolzano. L’ingiusto silenzio su una esperienza di raffinata sensibilità e di alto rigore linguistico è stato rotto dall’amico “storico” Raimondo Coga, con una sobria monografia di “Immagini ed Echi” edita senza clamori  dalla sua Dedalo nel 2009.
Voleva essere un ricordo – mi scrisse allora con ironia – della  “meglio gioventù” vissuta fra noi in solidarietà anche generazionale. Ma in un recente incontro nella sua casa-laboratorio mi aveva confidato la voglia di dire ancora cose. La chiave sentimentale della sua pittura sta in una annotazione in calce ad una poesia di Robert Frost, Mending Walls, da lei assunta nel 1980 come testo per una mostra a Savona:  ”Nel mio paese delle meraviglie gli alberi camminano, ma non v’è traccia di muro”. Adele si era chiusa fra pareti di silenzio privato, fuori dalla rissa mondana, forse per sognare un mondo senza muri. Ora il suo sogno si è avverato.

Quando le donne si amano e si odiano (un video di Giulia Caira)


Sulle pareti bianche della galleria si stende ad angolo una doppia videoproiezione. Due donne si azzuffano furiosamente all’interno di una cella circolare, come in una contesa di wrestling. Ma non c’è pubblico e sembrano odiarsi davvero. I due punti di ripresa esaltano le tensioni plastiche dei corpi e i sommovimenti degli spazi. Improvvisamente l’obiettivo si sposta su una sala da ballo di eleganza modernista con molte coppie che danzano, coinvolgendo le due donne che ora si avvinghiano con passione amorosa. Poi tornano a battersi, o forse la sequenza va letta all’inverso: la proiezione in loop  non fa distinguere un inizio da una fine. Non c’è una storia da narrare insomma, ma una tipica relazione tra donne da evocare: “l’amicizia e la complicità da una parte, l’invidia la rivalità e il conflitto dall’altra”, dice l’autrice del video, Giulia Caira. S’intitola “Evil Sisters” ed è presentato a Bari in prima nazionale. Una “riflessione autocritica sulla condizione femminile” che segna un punto significativo nel percorso dell’artista di origine calabrese (Cosenza 1970) ma incardinata da sempre a Torino. Da lì è emersa fra le protagoniste della generazione Novanta che hanno rinnovato in Italia i linguaggi di relazione fra arte e vita guardando a esempi forti, Cindy Sherman, Nan Goldin, Francesca Woodman…

Fu un esordio coraggioso il suo, con fotografie aggressive tra grottesco e noir nelle quali metteva in causa il proprio corpo in interni chiusi, tra rispecchiamenti deformanti, misteriosi avvolgimenti in teli di plastica. Col passaggio al video (“Se stasera sono qui”, 2004) ha affinato aperture concettuali di sguardo sulla vasta “zona di disagio” (per dirla con Franzen, scrittore a lei caro) che accomuna nei Duemila smarrimenti individuali e crisi della società. Instabili e problematiche  “relazioni intime” – titolo di video 2006 ispirato a Beckett – che si sporgono su un “confine incerto”(2005). Le più recenti mutazioni d’identità in “Virago” 2008 e le storie quotidiane rivelate con  “Le parole nascoste” 2009 si distendono in distacco visivo, scambi sottili fra realtà e finzione, anche con una punta di ironia. Nelle “Perfide Sorelle” riaffiora il gusto per il noir (dice di aver tratto spunto dalla cronaca di un delitto a Torino, una giovane uccisa dalla sua migliore amica) che si colora di attualità mentre sale l’onda di protesta contro il femminicidio. Ma qui la violenza si scatena fra donne – fenomeno indagato da diversi studi, come bene segnala Francesca Referza curatrice della mostra. Non è tanto questione di genere (la femminista “differenza”), sostiene Giulia Caira in una recente intervista: “il disagio di uno è un problema che riguarda tutti”. E nel “doppio movimento” quasi da cinema, nel corposo realismo del ribaltamento teatrale, rispecchia le alternanze del suo attuale stato d’animo: “ottimismo speranzoso e pessimismo terreno e cosmico”. 
A Bari, da Muratcentoventidue, sino al 30 giugno, da martedì a sabato 17-20. 
Info: 3938704029. 

L'arte liquida deborda dal Castello



Dichiara tutto il suo debito a Zygmunt Bauman il festival d’arte contemporanea “Liquid Borders” che dal Castello Svevo di Bari deborda (è il caso di dire) nella Sala Murat e in Santa Teresa dei Maschi. Prova a verificare con opere di fotografia, video e installazioni la visione della “società liquida” diffusa dal sociologo polacco con successo mediatico (spinto sino alla banalizzazione, ammonisce Carlo Garzia nel catalogo Adda). Ma da tempo non sospetto Luca Curci – il giovane ideatore e curatore della rassegna con Fausta Bollettieri – dichiara attenzione per i fenomeni di mobilità, ibridazione, sconfinamenti che connotano la condizione attuale. La riporta persino nelle modalità di reclutamento e assemblaggio dei 42 autori da 25 paesi che compongono la rassegna: per invito e per selezione online – quindi con diversi livelli di riconoscibilità come di qualità - e mescolando competenze ed esperienze. Per dire: da un autorevole maestro calabrese-argentino come Antonio Trotta rappresentato da due storici lavori 1972 – fotografie di finestre concettualmente emulsionate su vetro – al pressoché esordiente barese Stefano Romano (un disegno di edificio con vetri infranti da una misteriosa battaglia). In mezzo – anche per la posizione strategica nella corte del Castello -  si potrebbe collocare l’installazione di un’artistamidcareer come Daniela Corbascio: una sorta di capanna montata precariamente su carrelli portatili, che inalbera su forti pali di metallo e neon una giostrina di ricordi di casa materna.
Già così si delinea una fenomenologia “marginale” di frammentazioni e sdoppiamenti che trova interessanti variazioni nelle opere esposte (mi mancano ahimé i promettenti video proiettati in serie a Santa Teresa). Il tema della del nascondimento e mutazione d’identità ricorre nella installazione con maschere di lattice e nella impressionante videoperformance di Daniel Pesta (Praga 1959), come nelle fotografie digitali con volti nascosti da calze o lampade della tedesca Catrine Val. La condizione liquida della società di massa è segnalata con raffinati trascinamenti e dissipazioni d’immagini da Nora Schoepfer (Vienna 1962) mentre si esalta esteticamente con dissolvimenti di cromatismi orientali  nel videoSolipsist di Andrew Thomas Hung (miglior corto al Sundance Film Festival 2012). Altri gruppi di fotografie puntano sulla marginalità sociale e geopolitica, come Sanja Jovanovic (Serbia) e Labib M. Sharfuddin (Bangladesh). La condizione dei fuggitivi e dei rifugiati è evocata dall’allineamento (piuttosto scolastico) di coperte con cuscino per terra lungo la sala Murat, di Emanuele Saracino. E può essere una significativa sintesi della impegnativa riflessione proposta da Liquid Borders la voce dell’americana Heather Connelly che ripete nella stessa sala, in più lingue, il mantra spiazzante e invocante This is Me: come a riconoscersi e nello stesso tempo perdersi nell’Altro. Sino al 31 luglio. Info: tel. 0805234018, 3387574098.